Le donne, come gli uomini, sono creature estremamente semplici da comprendere. C’è solo una cosa che rimarrà per sempre incomprensibile: il cambio di stagione. Ci ripensavo poco fa mentre spostavo le t-shirt estive nella scansia inferiore dell’armadio e promuovevo felpe e magioni ai galloni di titolari, tipo turnover in una squadra di basket che gioca le coppe con un lungo roster multimilionario. Tempo totale trenta secondi.
Nel corso della mia vita, ho visto cambi di stagione femminili durare giornate intere, talvolta settimane. Roba che in confronto le pulizie del prete di mia nonna durante le benedizioni pasquali erano fugaci spolveratine di 5 minuti.
“Tu non puoi capire” mi ripetono sempre mentre spostano montagne di vestiti dall’armadio sul letto fino a riempirlo completamente. Poi una pausa caffè/sigaretta/riga di coca/Prozac per calmarsi e poi via con l’occupazione del divano e di qualsiasi superficie un tempo preposta al relax e ora cinta d’assedio come una città infedele ai tempi delle crociate.
E quando provi a lanciare un rametto d’ulivo nel caos incontrollato del cieco estremismo vestiario che ti circonda, proponendo una semplice soluzione razionale, vieni trafitto dall’ennesimo “Non puoi capire, sei un uomo”, che se provi a dirlo te a generi invertiti parlando di basket, calcio o lotta greco romana, ti becchi una denuncia per aggressione sessista che per patteggiare la riconversione in una pena pecuniaria ti servono gli avvocati di Berlusconi.
Io non lo so se sono l’unico a non capire il mistero che si cela dietro il cambio di stagione, so solo che quando sento gli scienziati parlare del dramma del cambiamento climatico, immagino il pianeta terra sommerso da gonne, tailleur, perizomi e bikini e mi viene la tachicardia.
Cambio di stagione in corso in camera da letto, in attesa di sommergere di vestiti anche le altre stanze. (foto: per gentile concessione della mia morosa)
Ho partecipato al sacco dei negozi romani prima della zona rossa di tre settimane. Sembrava di essere dentro a un episodio di South Park, una di quelle robe della serie: mai “ho visto cose che voi umani” fu detto in modo più appropriato.
Ho visto commessi della Conad correre da un banco all’altro urlando istericamente: «È proprio vero, è finito il lievito. Manco in magazzino ce sta!!!».
Ho visto cani e bambini correre e giocare liberi da Cisalfa come al parco, urlando (i cani), leccando e sputazzando ovunque (i bambini), mentre i padroni (dei bambini) e i genitori (dei cani) provavano ogni singolo paio di scarpe in esposizione pretendendo la dettagliata spiegazione di ciascuna caratteristica tecnica, per riunirsi in lunghi summit come se dalla scelta dipendesse il destino del genere umano.
Ho visto clienti aggirarsi nervosi tra gli scaffali chiedendo ansiogeni a ogni singolo commesso: «Siete aperti domani?! Domani siete aperti?! Ma domani… siete aperti?!».
Ho visto commessi iperattivi rispondere come un risponditore automatico incantato: «Da domani siamo aperti, ma solo il reparto intimo e bambini», «sì, ma solo intimo e bambini», «Solo bambini e intimo. Lo so signora, ma non le faccio io le regole».
Ho visto file alle casse che sembravano la coda per entrare nel locale più esclusivo di Briatore.
Ho visto festeggiamenti nei ristoranti con trenini di meu amigo Charlie Brown che sembravano provenire direttamente dal capodanno del Millennium bug del 2000.
Ho visto gente tra le bancarelle di Porta Portese accaparrarsi tutto quello che gli passava tra le mani al grido di «Zona rossaaaaaaa!!!».
Ho visto ristoratori salutare i loro clienti con un funereo gesto di commiato, una caramella al limone e un “Buon Lockdown e Buona Pasqua” col sorriso amaro sulle labbra.
Ho visto cose che purtroppo ho dimenticato.
Ho visto cose che non dimenticherò mai più.
E quando il giorno dopo tutto sembra finito, m’aggiro con circospezione al supermercato sotto casa e mi sembra di essere tornato ai tempi dell’original lockdown™, quando le ciabatte erano esposte dietro a un nastro isolante nero funebre a forma di “X” tipo scena del crimine con la scritta “non in vendita”, e solo a guardarle mi viene un irrefrenabile bisogno di ciabatte nuove. Perché, nonostante mi vanto di essere immune al fascino seduttivo della pubblicità, l’ancestrale bisogno freudiano di possedere quello che non posso avere è davvero irresistibile.
Le ciabatte del supermercato. Quanto vorrei le ciabatte del supermercato. Non ho mai desiderato un paio di ciabatte come in questo momento.
Ho la presunzione di spedire un pacco in un altro continente, allora mi reco all’ufficio postale di un Vergato, il piccolo paese in cui sono cresciuto, con l’ingenuità di chi dà per scontato di avere di fronte un’impiegata che sa da che parte è girata: «Devo spedire questo pacco negli Stati Uniti». Digita un po’ sulla tastiera e poi all’improvviso se ne sboccia con un: «Non li trovo». «In che senso?». «Non trovo gli Stati Uniti». «Eh?». «Gli ho cercati ovunque. Non ci sono sotto la “U” di U.S.A e neppure sotto la “A” di America». «Ha provato sotto la “S” di Stati Uniti?». Digita un po’ sulla tastiera, poi: «Ah, eccoli, sono sotto la “S”. Pensa te! Fanno ‘sti programmi in un modo assurdo». «Eh già, maledetti programmatori!».
Avete presente l’amico ultraquarantenne che prova in tutti i modi a farsi piacere la musica trap perché non vuole accettare di essere invecchiato? Ecco, io sono così, però per gli eBook. È da oltre un decennio, infatti, che a cadenza regolare mi costringo a leggere un libro in formato salva foreste. Di solito succede quando ho un’impellenza di leggere un romanzo talmente urgente da non potere attendere il passaggio in libreria il mattino dopo. L’altro ieri era uno di quei giorni.
Allora acquisto l’eLibro, ma proprio un istante dopo il pagamento, il sito finisce in manutenzione notturna e non c’è modo di scaricarlo per leggerlo sul mio lettore per libri non di carta. Il giorno dopo ci riprovo e stavolta è l’applicazione Adobe per la validazione della licenza a fare le bizze. Dopo un quarto d’ora al telefono con il supporto tecnico che mi parla con acutissime metafore tipo “la licenza digitale è un po’ come una chiave che apre un lucchetto”, dando per scontato che sono un analfabeta digitale, mi girano le palle, chiedo il rimborso dell’acquisto e mi dirigo verso la libreria Feltrinelli più vicina, 16 ore esatte dopo l’acquisto impellentissimamente urgente, roba tipo da questione di vita o di morte.
E mentre entro nel negozio, mi rammento di essere un tipo analogico, di quelli proprio con le rotelle e gli ingranaggi. Provo piacere fisico a prendere in mano i libri, a sfogliarli, leggere le quarte di copertina, chiedermi cosa spinge certi editori a scrivere trame che mettono tristezza persino alle sinossi dei film da festival. È meraviglioso vedere le foto da pirla che certi scrittori hanno scelto, leggere le biografie pretenziose di certuni, adorare quelle dal basso profilo di altri (robe tipo “Sono nato a Pavia e vivo a Vercelli con un gatto, questo è il mio terzo romanzo”. Genio).
Ma soprattutto, amo guardare con disprezzo i best seller da supermercato. Quelli che non comprerei mai. Che siano cuochi da reality, influencer da quattro soldi, politici narcisisti, tronisti di quel programma che non è il Grande Fratello ma è stupido uguale e forse di più. Roba che in confronto le cinquanta sfumature di grigio sono un tripudio orgiastico di alta letteratura stile D’Annunzio senza costole.
E mentre giro e sfoglio e guardo, mi ricordo il vero motivo per cui ha senso ancora leggere i libri di carta. Sebbene occupino fin troppo spazio, assecondino la mania dell’accumulo fisico degli oggetti tipico della società capitalistica, costino troppo, e non sono resistenti all’acqua come il nuovo iPhone. Le copertine.
Se un libro ha una bella copertina, ha già di per sé un senso di esistere, indipendentemente da quello che contiene all’interno. All’improvviso ne ho la certezza: non esiste libreria digitale che può restituire il piacere di passare in rassegna le copertine finché una all’improvviso non attira la tua attenzione. È stato così anche quel giorno. Una copertina magnifica, sexy, conturbante, enigmatica, si staglia nella scaffalatura in mezzo agli altri libri. Sobria. Elegante. Completamente gialla, il mio colore preferito. E per titolo, un’unica lettera nera: “E”.
Rimango folgorato. “Questo è marketing”, penso. “Come posso essere stato così ingenuo da incartarmi nello shopping online e privarmi del piacere della scoperta di cotanta abbacinante bellezza?”. La cosa che mi attira maggiormente è la totale assenza del nome dell’autore. Alla faccia di Elena Ferrante! Questo/a sì che è uno/a con le palle/ovaie (prendo le distanze dalla fallacia intrinseca del politicamente corretto). Uno scrittore/trice/tori/trici con il coraggio di osare, in un mondo drogato dal desiderio di apparire. In quel preciso istate, so che devo assolutamente leggerlo, indipendentemente dal suo contenuto.
Con uno slancio impetuoso lo afferro e mio malgrado smaschero l’enigmatico mistero che si cela dietro al giallo del libro giallo scoprendo che… si tratta semplicemente del cubo della lettera “E” per organizzare i libri in ordine alfabetico. E così, vittima della delusione più grande della mia vita, afferro il libro che mi sono recato lì a comprare e mi dirigo alla cassa con la coda tra le gambe.
La copertina definitiva per distinguere la lettera D dalla lettera D: troppo bella per essere vera.
«Ha la tessera Feltrinelli?» «Sì, ma non ce l’ho con me.» «Come si chiama?» «Andrea Bacci.» «Mi escono 25 pagine di Bacci. Ha un dato più dettagliato?». «Ho tutti i dati che vuole. Quale preferisce?» «Dove ha fatto la tessera?» «Bologna. Ma non sono residente a Bologna.» «Non mi risultano Bacci Andrea a Bologna. Troppo lungo. Niente, non si può fare, ci vuole troppo tempo. Sono 16 Euro e 50». «A dire il vero, non porto mai con me la tessera Feltrinelli perché la trovano sempre tutti i cassieri in 2 secondi.» «Allora mi deve dare un dato più dettagliato. Tipo l’e-mail.» Faccio lo spelling dell’e-mail. «Ecco: così l’ho trovato. Però non è residente a Bologna.» «No, infatti, come le spiegavo, non sono residente a Bologna anche se ho fatto la tessera a Bologna.» «Vuole che cambiamo la residenza?». «La mia residenza che c’è sulla tessera è giusta, non occorre cambiarla.» «Come desidera». Mi allunga il libro. «Potrei avere una busta?» M’infila il libro in una busta vera e propria, senza manici, come fosse una lettera da spedire in posta o, peggio ancora, un DVD porno da nascondere. E con il mio libro occultato alla vista dei curiosi stile bottiglia di birra dei barboni americani, m’incammino stancamente verso casa.
“Prima o poi devo ricominciare a leggere sul mio splendido eBook reader”. Penso. “Così non devo uscire di casa solo per comprare un libro”. “E sono già pronto per il prossimo lockdown”.
La busta per occultare imbarazzanti gusti letterari.
È il 20 ottobre 2015. Ultimamente vado all’estero con una certa frequenza, non per necessità o piacere, solo per darmi un atteggiamento. Nonostante lo sforzo di sembrare un frequent flayer, che fa molto più cool del banale pendolare, finisco sempre per cadere nel peggiore dei tranelli da principianti: arrivo al gate troppo presto. Difficile liberarsi del super-io materno e della filosofia del metti-che-succede-qualcosa-meglio-partire-in-anticipo, anche se poi, diciamolo, la vita finisce per rivelarsi sempre più monotona delle aspettative e alla fine non succede mai niente. E allora eccomi qua al gate con un’ora di anticipo.
Ne approfitto per girare tra i negozi, nonostante non abbia voglia di comprare nulla, e in caso di tentazione, il trolley pieno come un uovo è condizione necessaria e sufficiente a farmi desistere. Constatato che non sono da Harrods ma al molto meno trendy e ugualmente trafficato terminal 2 di Fiumicino, e senza neppure accorgermene finisco in fila per un panino in uno degli accattivanti locali pieni di prelibatezze culinarie. Ringraziando l’hamburger di mezzanotte della sera precedente che mi ha impedito di fare colazione, inizio a scegliere il mio pranzo.
L’indecisione è tanta, in finale sono arrivati il panino con pane alle patate ripieno di lonza di maiale, e la pizza bianca alla mortadella. Sono come al solito ancora indeciso quando tocca già a me, allora seguo il mio istinto che mi suggerisce di evitare la mortadella fuori dai confini bolognesi. È nel momento più inaspettato che si materializza l’imprevisto strenuamente profetizzato dalla mamma: hanno solo bottiglie d’acqua da 75 cl. Forse non un dramma insormontabile, ma nel grande disegno complessivo sono i dettagli a fare la differenza, e anche il più trascurabile dei particolari può avere conseguenze catastrofiche.
Meccanici al box Mercedes dell’aeroporto di Fiumicino.
Non so esattamente da quando o per quale motivo, ma da qualche tempo aeroporti, stazioni ferroviarie e autogrill sono stati invasi da queste bottigliette da tre quarti di litro, troppo grandi per essere piccole, troppo piccole per essere grandi; una deforme via di mezzo troppo tozza per rientrare negli standard socialmente accettati (es. porta bibite dell’auto). Ho sempre detestato queste aberrazioni partorite dalla mente malata di qualche drago del packaging, principalmente per un motivo semantico: se iniziamo a chiamare bottigliette quei contenitori che contengono lo stesso quantitativo di liquido delle bottiglie, dove andremo a finire?
Fino a oggi mi sono sempre adeguato alle circostanze nella passiva accettazione del mio destino, limitandomi alla sterile lamentela a posteriori per l’insopportabile fastidio di non sapere mai dove riporre quella bieca incarnazione d’inutile benessere plastificato. L’inevitabile conseguenza è che ho sempre finito irrimediabilmente per bere l’acqua il più in fretta possibile pur di sbarazzarmi in tutta fretta di quello sgradito compagno di viaggio clandestino. Ovviamente, il risultato è trascorrere il resto del viaggio alla ricerca di un bagno, pentito, ripromettendomi che non comprerò mai più una di quelle bottigliette contraffatte.
Ma questa volta è diverso. Mentre mi chiedo se le ragioni dell’invasione delle maxi bottigliette sono dettate da qualche oscura strategia orwelliana per il controllo della società, sento che non lascerò che vada a finire come al solito. Questa volta m’impunto e, dinnanzi alla mancanza di regolari bottigliette da mezzo litro, me ne vado via con il mio panino senza liquidi per mandare giù il boccone, per lo stupore della cassiera ma con la fierezza di chi si sta coraggiosamente battendo contro i mulini a vento. È così che inizio ad aggirarmi per il terminal in cerca di una bottiglietta degna di quel nome, felice di aver trovato qualcosa da fare per riempire l’attesa.
Meccanici al box Ferrari dell’aeroporto di Fiumicino.
Come sempre accade in questi casi, però, la nobiltà degli intenti si deve scontrare con la dura realtà. Bar dopo bar, locale dopo locale, la risposta è sempre quella: niente bottiglie da 0,5 litri. Determinato a non accettare la sconfitta, decido di tentare la fortuna nei negozi. Inaspettatamente, l’ultimo negozio di souvenir ha un cesto di bottigliette che mi attende di fianco alla cassa. Il miraggio, però, dura giusto il tempo di appurare che, non essendo in frigo, l’acqua è inevitabilmente calda. E c’è solo una cosa che odio più delle bottigliette fake: bere acqua a temperatura ambiente. A meno che l’ambiente in questione non sua un igloo del Polo Sud. Preso dalla disperazione, chiedo alla cassiera se hanno anche acqua fresca, e lei con encomiabile gentilezza mi dice che il tabaccaio a fianco ha un frigo pieno di bottigliette d’acqua.
Il tabaccaio?! È qui che capisco tutti i miei limiti di frequent flayer improvvisato. Mai avrei pensato di trovare quello che cercavo dal tabaccaio, ma dopotutto, con i fumatori sempre più relegati allo status di parassiti da estirpare, la diversificazione degli affari ha un senso. M’avvio a grandi falcate verso il tabacchino, trovo il mini frigo con le bottigliette d’acqua lì ad aspettarmi, e pago l’Euro e cinquanta meglio speso della mia vita. Mentre mi abbevero trionfante alla fonte della mia vittoriosa battaglia contro l’egemonia del collo di bottiglia della grande distribuzione, un turista inglese si avvicina e chiede alla tabaccaia se vendono francobolli. Lei lo guarda come se le avesse chiesto la Luna, gli spiega che non li vendono, quindi guarda me come per dire: “che domande stupide”. Io scrollo il capo e guardo dall’alto al basso quel viaggiatore occasionale: dilettante, i francobolli dal tabaccaio in aeroporto.
Eternamente grato per la lezione sulla diversificazione delle attività del terzo millennio, mi reco al mio gate. Un rapido sguardo all’orologio mi rassicura sul fatto che mi rimangono solo cinque minuti di noiosa attesa, quando l’indicibile accade. Il gate è stato cambiato. Quello che era C12 è diventato D9, così, senza motivo. Senza preavviso. Guardo nuovamente, mi accerto di non aver sbagliato riga del display, ma altri due passeggeri spaesati quanto me per lo spostamento mi confermano la sconvolgente notizia.
Panico.
Mentre mi confronto con l’inadeguatezza del viaggiatore occasionale nell’affrontare le emergenze, mi dirigo a passo svelto verso il gate giusto. Non corro per non dare nell’occhio, slalomeggio tra le persone trascinandomi dietro il mio trolley come fosse un’estensione del mio braccio. Con naturalezza, seguo le indicazioni e mi auguro che l’area D non sia troppo distante. Quando finalmente la raggiungo, vedo il gate all’orizzonte e calcolo mentalmente la distanza che mi separa dal luogo d’imbarco del mio aereo.
il film tratto dalla mia avventura a Fiumicino.
Man mano che mi avvicino, come in preda a una visione mistica, esco dal mio corpo e mi vedo destreggiarmi abilmente tra corridoi, persone, bagagli, con la disinvoltura di chi passa le sue giornate nei terminal aeroportuali. Mi guardo arrivare al gate esattamente nel momento in cui inizia l’imbarco, con il carisma del frequent flayer più scafato. Vorrei che ci fossero tutti i miei amici, parenti, nemici e conoscenti, ad assistere alla mia marcia trionfale verso la corsia d’imbarco prioritario. Estraggo carta d’identità e iPhone con due gesti talmente fluidi da apparire un movimento unico, rapido ed elegante. Mi guardo accedere al tunnel che porta all’aereo con l’autorevolezza dello scafato uomo d’affari. Lo stesso fanno tutti gli altri passeggeri, costretti dalla modestia dei propri biglietti a darmi la precedenza.
Mentre entro nell’aereo semideserto mi volto indietro: dietro di me non c’è nessuno. Ma se mi concentro riesco a vedere il viso tirato dalla fatica della cassiera che mi ha venduto il panino e il frigo dietro di lei pieno di bottigliette troppo grandi. È successo solo pochi minuti fa, ma sembrano anni. Sono ormai diventato un viaggiatore esperto, tra poco gli aeroporti non avranno più segreti per me. Ricordo i tempi in cui ero un novellino, quanto tempo sarà trascorso da allora? Almeno sessanta minuti buoni, forse anche qualcosina di più. Ne è passata d’acqua sotto i ponti. Sorrido orgoglioso per aver trovato una metafora così calzante. Estraggo la mia bottigliata d’acqua, ne bevo un sorso, e mi dirigo verso il mio posto senza neppure preoccuparmi della distanza che mi separa dal bagno. Questa volta ho il giusto quantitativo d’acqua con me, e posso finalmente godermi il viaggio in santa pace. Una volta tanto, ribellarmi è servito a qualcosa.
Signore e signori, è ufficiale (rullo di tamburi): ho aperto un blog. Un grande passo per me, un piccolo passo per il genere umano. Lo so, siete emozionati, è comprensibile. Non capita tutti i giorni di essere un lettore del mio blog, ma col tempo, vedrete, ci farete il callo. In caso contrario avvisatemi, che vi giro il contatto di una brava estetista per una bella pedicure.
Buzz Aldrin sul set di Kubrick allestito direttamente sulla Luna per eccesso di perfezionismo (foto: NASA)
Ho deciso di aprire un blog perché non vanno più di moda. Oggi vanno i social network, ma aprire un social network avrebbe comportato troppe scartoffie, investitori, quotazioni in borsa, per non parlare delle migliaia di dipendenti in mezzo ai piedi tutti i giorni.
Soprattutto, ho deciso di aprire un blog perché i blog non li legge nessuno. È un po’ come scrivere sul diario, ma senza il rischio che qualcuno lo trovi in un cassetto dopo la mia morte. Perché sul web tutti cercano di tutto ma nessuno trova mai niente. Ma anche se qualcuno trovasse questo blog per caso, sicuramente non è quello che stava cercando. E nella remotissima ipotesi che si mettesse a leggere il contenuto, il suo tempo di attenzione prima di passare a un altro sito oscillerebbe tra i 3 e i 5 secondi.
Non lo dico io, lo dicono gli scienziati. Pertanto, se siete arrivati a leggere fino a questo punto, siete un’anomalia. Ma non nel senso che siete sopra alla media. Nel senso se non siete normali, siete probabilmente malati, fareste bene a correre da un medico e sperare che esista una cura. Oppure potreste semplicemente trovatevi un hobby, perché mi sembra evidente che non avete niente da fare. Magari potreste aprirvi un blog tutto vostro, così la smettete di perdere tempo qui.
Avrei voluto fare un lancio in grande stile con immagini di palloncini, finger food e champagne a corredo di questo post, ma purtroppo per via del Covid non è stato possibile. In compenso, ho installato sul server un potente antivirus, pertanto potete accedere al blog senza mascherina e green pass.
Ma partiamo dal principio. Qual è il senso di questo blog? Anzi, partiamo dalle origini. Cos’è un blog? Per chi ancora non lo sapesse, un blog è un web-log, ovvero un diario sul web. Qualcuno ha tolto le prime due lettere per risparmiare spazio (quindi iniziamo a fare scorte di carta igienica in previsione del prossimo Millennium bug), qualcun altro ha levato pure il trattino, ed è nato il blog. Che non c’entra niente con Blob, il film, e neppure con la trasmissione TV, ma il senso è un po’ quello: un’accozzaglia di cose a caso che ci sommergono inevitabilmente.
Il pesce blob (foto: Kerryn Parkinson/NORFANZ)
Quindi, insomma, vi starete chiedendo: “cos’è questo blog?”. Grazie per la domanda. Vita sprecata è una guida, un po’ come quella delle giovani marmotte ma anche per anziani. È una specie di guida galattica per autostoppisti ma senza gli autostoppisti. Un vero e proprio manuale pratico su come affrontare passivamente la vita accettando di venire irrimediabilmente sconfitti da essa.
Il cuore del blog sono le Cronache di vita sprecata, racconti di ordinarie sventure quotidiane che fungono da vero e proprio corso di autopeggioramento per imparare a uscire di casa sperando di rientrarci al più presto. Poi ci sono le Pillole di vita sprecata, fulminei rimedi omeopatici per curare l’utopica illusione di essere circondati da persone raziocinanti. Infine, le Riflessioni sprecate, non sono altro che monologhi di minimo interesse sui massimi sistemi. Se non vi bastano non disperate, perché altre ne arriveranno presto.
Tutto quello che leggete su queste pagine è un resoconto tragicomico di avvenimenti realmente accaduti, che in un mondo ideale non dovrebbero mai verificarsi, ma che nel nostro strano pianeta continuano inevitabilmente a succedere.
Perché la vita non è come la desideriamo. A meno che non si desideri una vita indesiderabile. È proprio questa, forse, l’essenza di questo blog: imparare ad augurarsi che le sfighe continuino ad accadere, così le possiamo tramandare al prossimo. Perché, alla fine, non esiste niente di meglio di una buona storia da raccontare. E se il prezzo da pagare è una pessima esperienza che ci rovina la giornata, ben venga. Abbiamo aggiunto un tassello alla nostra vita sprecata.
E forse, chissà, con un po’ di fortuna alla fine magari salta fuori che così sprecata non è.
Sono originario di un triste paesino dell’Appennino bolognese dove ritorno più spesso di quanto dovrei ma meno di quanto potrei. Ho studiato a Bologna e Los Angeles. Vivo a Roma. Vorrei vivere a Vienna. Quando sono imbottigliato nel traffico, il mio istinto di autoconservazione mi convince che vivo alle Maldive.
Il paesello dove sono cresciuto si chiama Vergato. A dire il vero sono nato a Bologna, ma la frenesia della vita cittadina non mi si addiceva e dopo un paio di giorni ho deciso di trasferirmi in provincia. Vergato non deriva da verga (né Giovanni, né quella in mezzo alle gambe), bensì dal fantomatico tessuto vergato che veniva prodotto nella zona. Ecco, per avere la giusta prospettiva del paese basti pensare che questa è la cosa più interessante di Vergato, uno di quei posti talmente piccoli dove si conoscono tutti. Il problema è che ci conosciamo talmente bene che beviamo per dimenticarci, con l’inevitabile risultato che nessuno conosce più nessuno, un po’ perché siamo alcolizzati, ma soprattutto per via del fatto che quando decidiamo di fare qualcosa, la facciamo bene.
Vergato 14 aprile 1945, quando all’apice dello splendore richiamava molti turisti americani.
Io, comunque, quando non sono a Vergato o a Bologna vivo a Roma, la capitale del paese da cui provengo. Non Vergato. Parlo di quella strana nazione a forma di stivale a mollo nel Mediterraneo che si chiama Italia perché… non ne ho idea. Non so neppure perché Roma si chiama Roma, ma non perché sono ignorante, è proprio una cosa sconosciuta, anche se qua sono tutti convinti che derivi da Romolo, e io non ho il coraggio di dirglielo che è solo una leggenda senza fondamento… che poi a pensarci bene avrebbe più senso che derivasse da Remo, visto che si chiama Roma e non Romola. Questo giusto per rivalutare Vergato che sarà anche un posto minuscolo e irrilevante, ma almeno il suo nome ha un senso.
Roma non è un posto molto diverso da un paese di provincia, visto che l’inesistenza di mezzi pubblici e il traffico impossibile, rendono ogni quartiere un paesino dal quale gli abitanti non escono mai, se non per il rituale funebre dello spostamento a due o quattro ruote per andare al lavoro, e la trasferta del fine settimana per andare a Ostia o al lago. Credo che sia per questo che mi trovo a mio agio in questa assurda città nonostante le sue tre gravi piaghe che, per citare Johnny Stecchino, la diffamano agli occhi del mondo: la siccità, il traffico e il Vaticano, famoso per essere lo stato con il più basso tasso di crescita popolazione, pari allo 0,004%. In pratica, se non fossero contrari a profilattici e aborto, si sarebbero probabilmente già estinti.
Sono nato il 3 aprile del 1975, ma dell’evento non ho alcun ricordo. Leggenda narra che nacqui alle 23.15 in punto, forse è per questo che sono un nottambulo. Però la mia diffidenza cronica nei confronti delle pubbliche amministrazioni mi fa dubitare che l’orologio della sala parto segnasse l’ora giusta.
Vivo qui e ora, ma ogni tanto ho il vizio di tuffarmi nel passato. Guardo al futuro con ottimismo, forse perché non ho l’abitudine di pensare alla morte. Almeno non la mia.
A quindici anni ero ingenuo, a venti stupido, a venticinque giovane, a trenta mi sentivo vecchio, a trentacinque mi dicevano che ero troppo giovane, a quaranta sostenevano che ero troppo vecchio, oggi sono saggio. Saggio al punto tale da rendermi conto che quando ho iniziato a scrivere queste quattro righe ero 5 minuti più giovane. Minuti preziosi che non torneranno più. È per questo che cerco sempre di vivere una vita al massimo… della calma. Sono capaci tutti a volere una vita spericolata: desiderare una vita sprecata, invece, è la vera rivoluzione.
♫♩♬ Voglio una vita sprecata, una vita come quelle dei film. ♫♩♬
Anni fa installai sul telefonino un’app che calcolava il momento della mia morte: diceva che sarei deceduto il 10 ottobre del 2044 alla veneranda età di 69 anni. Ho preso la cosa molto sul serio e da allora non guardo mai a destra e a sinistra prima di attraversare la strada. Non ho fatto testamento perché intendo sperperare i miei averi entro quella data. Ho appena assunto un consulente finanziario per capire il metodo più redditizio per dilapidare tutto quello che possiedo. (CONTINUA)
Da piccolo la mamma diceva che mi aveva portato la cicogna ma non le ho mai realmente creduto. Dopo che mi aveva ingannato sull’esistenza di Babbo Natale, la sua credibilità aveva subito un grave contraccolpo. Quando ho scoperto che era arrivata incinta al suo matrimonio, ho intuito che la cicogna non c’entrava niente: la responsabilità era da attribuire a ben altro tipo di uccello.
L’inconscia consapevolezza di essere venuto al mondo per puro caso ha probabilmente contribuito a rafforzare in me la convinzione che la casualità domina incontrastata il mondo. È forse proprio per questo che sono un convinto ateo praticante. Non credo in niente e in nessuno, soprattutto in me stesso. Figuriamoci in sciocche divinità dai nomi buffi che trascorrono il tempo a creare mondi e persone con uno scopo ben preciso.
“Grazie a Dio sono ateo”.
Luis Bunuel
Quando facevo le elementari venni espulso dal catechismo perché facevo troppe domande alla povera suora, incapace di darmi valide spiegazioni alle mie comprensibili obiezioni (dopo essermi fatto fregare coi personaggi immaginari tipo Babbo Natale una volta, non volevo farmi fregare mai più, mica sono fesso). Tra tutti i personaggi pittoreschi e noiosi, ce n’era uno che non riuscivo proprio a capire: lo Spirito Santo. Sul fatto che Dio e Gesù sono la stessa persona non avevo grossi problemi, il concept di fondo dell’identità segreta dei supereroi mi era sin troppo chiaro, ma questo strano personaggio invisibile senza una motivazione convincente e completamente privo di backstory mi risultava davvero incomprensibile.
L’espulsione arrivò senza preavviso per somma di cartellini gialli a causa delle reiterate proteste: mi rifiutavo di accettare il mistero della fede come una spiegazione accettabile. Dopo essere diventato persona non grata, provai ad appellarmi alla convenzione di Vienna con scarsi risultati. La suora si limitò a spiegarmi che non avrei potuto finire il catechismo e quindi non avrei mai potuto sposarmi, che detto da una zitella acida che si credeva sposata con una persona immaginaria suonava davvero terribile.
Se sono un fortunato possessore di un album fotografico contenente le foto di me vestito da pirla fuori dalla chiesa il giorno della mia cresima, lo devo alla furia di mia madre che mi fece riammettere al catechismo per intercessione diretta del prete. Ricordo l’evento con sommo piacere perché si tratta dell’unica volta che mia madre mi ha dato ragione in vita mia.
Sweet baby Jesus, Hank is going to hell!
A dire il vero, i miei problemi con la fede Cattolica erano iniziati un po’ prima, più precisamente durante la mia prima comunione, quando l’ostia mi s’incollò al palato come una ventosa, e non trovai una soluzione più efficace di staccare il corpo di Cristo con un dito e appiccicarlo sotto la panca della chiesa come una gomma da masticare. L’ultima volta che ho sentito il bisogno di Dio sono tornato a cercarlo proprio lì dove l’avevo lasciato, ma lui non c’era più. Il mistero della fede (o delle imprese di pulizie).
Ciononostante, sono fermamente convinto che la mia vita abbia uno scopo, anche se non ho ancora capito quale. Probabilmente, trovare lo scopo della mia vita è lo scopo della mia vita, il che a pensarci bene rende lo scopo della mia vita pienamente raggiunto in questo preciso instante. Decisamente un grande vantaggio per una persona pigra come me. D’ora in poi potrò finalmente dedicarmi ad attività un filo più concrete. Tipo scrivere sul blog. (CONTINUA)
Sono uno dei registi più influenti del mio condominio, attualmente impegnato ad aggirare il prossimo film. Ho diretto commedie, drammi e documentari, e forse proprio per questo la mia vita è una tragicommedia. Il mio sogno è eguagliare Stanley Kubrick e non vincere mai un premio Oscar per la miglior regia. Senza falsa modestia devo ammettere che fin qui ci sono riuscito, anche se la strada verso la pensione è ancora lunga e irta d’insidie.
And the Oscar doesn’t go to…”
Anche perché, come tutti i lavoratori dello spettacolo, l’unica pensione che arriverò mai a vedere sarà probabilmente la pensione Michela di Riccione dove trascorrevo le vacanze con i miei amici a 16 anni. Sono anche sceneggiatore, montatore, e temo che l’aver fondato una società di produzione mi faccia rientrare anche nella deprecabile categoria dei produttori, di quelli con molte più idee che soldi. Come tutti i possessori di un iPhone sono anche fotografo, anche se le mie fotografie le scatto con la reflex, non le carico mai sui social e preferisco scattarle in bianco e nero per risparmiare sui colori.
Ho scritto un paio di romanzi che non tengo in un cassetto perché detesto gli stereotipi; li conservo in un hard disk ma non li faccio leggere a nessuno perché il mondo non è ancora pronto. La mia vita è radicalmente cambiata a 24 anni dopo aver preso una pallonata in un occhio. Ci ho visto a metà per una settimana, l’oculista mi aveva proibito di andare a lavorare, non potevo leggere o guardare la TV, mi era rimasta solo una cosa da fare. Pensare.
Ho pensato troppo e ho deciso che la mia vita mi faceva cagare. Appena la vista si è normalizzata, ho dato le dimissioni nell’ufficio in cui facevo l’impiegato da 4 anni e mi sono iscritto al corso di laurea in storia del cinema al DAMS di Bologna, dove mi sono laureato con 110 e lode. Sono stato il primo della mia famiglia a essere il legittimo proprietario di una pergamena di laurea, forse è proprio per questo che da quando l’ho appesa al muro hanno cercato in tutti i modi di convincermi che per vivere si deve fare un lavoro che detesti, mentre le passioni devono rimanere un hobby per allietare vecchiaia e weekend. Fortunatamente, sono troppo testardo per ascoltare i consigli. La targhetta con la scritta “Rag. Andrea Bacci” che era appesa fuori dalla porta del mio ufficio, la conservo ancora. La tengo sulle mensole del salotto posata contro a un teschio, accanto alla mia tesi di laurea e ai dvd dei miei film. (CONTINUA)