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Corsi e ricorsi statici camminando a rilento in via del Corso

È sabato, sono le 12.30, ricevo una telefonata: sono pronti i miei occhiali nuovi. Li vado a ritirare martedì, penso. Ho il treno per Bologna alle 14.50 e chiunque vive a Roma sa che non è umanamente possibile fare più di una cosa al giorno se ti muovi con i mezzi pubblici. In tanti nel corso nella storia hanno provato l’infilata di due appuntamenti mattutini o un paio di spostamenti pomeridiani, fallendo miseramente. Nel mio caso si tratterebbe di compiere un’impresa storica mai tentata prima: tram fino a piazza Venezia, traversata a piedi in solitaria su via del Corso fino al Ray-Ban store, quindi autobus per la stazione Termini. Per spiegare l’enormità dell’impresa, stiamo parlando di coprire 5 km e 400 metri in 2 ore 20 minuti, roba da Guinness dei primati. Ma le sfide perse in partenza esaltano il mio spirito non competitivo e decido di provarci.

Mi vesto di corsa, riempio il trolley con il mio kit di sopravvivenza bolognese invernale, controllo di avere guanti, sciarpa e berretto. Ricontrollo di avere guanti, sciarpa e berretto ma li nascondo in valigia per non essere deriso dalle baby gang romane che non hanno mai visto la neve in vita loro, e mi fiondo fuori dalla porta.

Il tram 8 arriva in 5 minuti, è l’unico mezzo di trasporto affidabile dell’intera città perché ha la corsia dedicata come nei film di fantascienza. Attivo il biglietto del bus con l’apposita app, visto che le edicole nei paraggi sono sempre senza biglietti perché tanto non li compra nessuno, e sul tram hanno tolto le biglietterie automatiche, ufficialmente perché erano sempre rotte e quindi la gente era autorizzata a non pagare (che è un modo diversamente abile di dire che non le riparavano mai quando si rompevano), e nel giro di 10 minuti scarsi sono già all’Altare della Patria.

Porgo le mie condoglianze al milite ignoto e mi dirigo verso qualcosa di ancora più ignoto: la folla di turisti di via del Corso. Mentre mi faccio largo tra la gente che viaggia a rilento sugli stretti marciapiedi rigorosamente affiancata ad amici, amanti e parenti allo scopo di prendere possesso dell’intera estensione del marciapiede pur di riuscire a intralciare gli altri pedoni, rifletto sull’ironia di chiamare via del Corso un posto in cui le uniche volte che qualcuno ci ha effettivamente corso, è stato tre anni fa durante l’ultima maratona cittadina.

Arrivo dall’ottico esattamente alle 13.30 e inizio la trafila dei test delle mie nuove protesi per gli occhi, facendo notare che vado di fretta perché ho il treno che mi aspetta. Le commesse gentilissime mi servono in coppia per accelerare i tempi: una mi raddrizza le stanghette, l’altra si occupa delle scartoffie, roba tipo mutuo bancario decennale perché stavolta di occhiali ne ho comprati tre. Adesso ho più occhi di un ragno.

Ray-Ban store stendardo

Visto che oggi rientro nella categoria di persone senza accento romano munite di trolley, mi sento autorizzato a chiedere consiglio sull’autobus da dirottare per arrivare in tempo in stazione. La loro risposta mi apre un mondo: «Ti conviene prendere la metro».
Strabuzzo gli occhi terrorizzato: la metro a Roma?! «Io sto a Trastevere», spiego, «la metro non è un’opzione per me».
Non so neppure se legalmente posso salirci sopra, non sono cittadino romano, non sono un turista, sono un apolide dei trasporti capitolini. Poi la metro si allaga quando piove, ha le scale mobili rotte, viene sabotata dai turisti islamici, e ci sono più preti e suore lì che in Vaticano. Non è un caso se l’ultima volta che ci sono salito sopra s’è dimesso il Papa teutonico: le azioni hanno conseguenze ma le commesse non paiono preoccuparsene.

«Ci metti 5 minuti», spiega, «sali alla fermata Spagna e in un paio di fermate sei a Termini».
Non sono persuaso: «E in autobus?», chiedo.
«In autobus ci metti di più, e poi non sai se arriva».
Giusto, siamo a Roma, a volte me lo scordo. Gli autobus svaniscono come nel triangolo delle Bermude.

Saldo il conto che costa un occhio della testa e fa immediatamente diventare dispari il computo totale dei miei occhi. Per consolarmi mi vengono rifilate tre custodie nere nuove fiammanti munite di panno per la pulizia delle lenti con tanto di QR code. Gli effetti del long Covid. Adesso che sono di moda li infilano ovunque quei maledetti quadratini bianchi e neri, in questo caso, però, qualche genio del marketing ha pensato di stamparlo bello ruvido e plastificato, per semplificare il riconoscimento da parte delle fotocamere degli smartphone. Se poi graffiano le lenti che sono preposte a pulire, chi se ne frega.

Nessuno può essere così folle da applicare carta vetrata su un panno di pulizia per gli occhiali. Le commesse convengono con me ma non possono dirlo, lo fanno semplicemente capire provando in tre a staccare il presunto adesivo con il QR code, che si rivela parte integrante dell’infernale dispositivo di pulizia. Un complottista direbbe che si tratta di una macchinazione ordita al fine di abbreviare il ciclo di vita delle lenti, ma io sono troppo pigro per cospirare e mi limito ad arrendermi alla molto più semplice e disarmante idiozia umana.

  • QR code
  • Sito Rat-Ban pagina pulizia lenti

Esco dal negozio esattamente alle 14.02, in perfetto orario. Approfitto del rider in bicicletta munito di un clacson da autotreno che apre in due la calca di pedoni, e m’incuneo nelle strette vie turistiche che conducono all’ingresso della metropolitana. Ho già attivato il biglietto sul mio smartphone, quindi non devo perdere tempo ad acquistarne uno alle macchinette.

Peccato che appena arrivo ai tornelli, il lettore non legge il codice a barre. Allora aumento la luminosità. Niente. La bigliettaia mi suggerisce di zoomare lo schermo, ma ancora niente, non c’è verso. È a quel punto che decide di concedermi l’onore di farmi passare. Il tornello si apre magicamente al mio passaggio, come fossi il Re di Spagna. Sento posarsi su di me gli sguardi d’ammirazione della plebe attorno a me per il nuovo Re di Piazza di Spagna. I benefici del biglietto elettronico.

La metro arriva dopo due minuti. Mi siedo nel primo seggiolino libero e controllo il display luminoso: “prossima fermata Cinecittà”. Mi sento già una stella del cinema, pronto per il capolinea Hollywood. Peccato che la fermata di Cinecittà sia la penultima; mi viene l’atroce dubbio che siano chiuse per guasto le prossime sedici fermate e ho paura di rimanere intrappolato per sempre nei pressi della casa del Grande Fratello.  

Le fermate si rivelano funzionanti e riesco a scendere alla stazione Termini: era semplicemente rotto il display luminoso. Chissà perché, Roma ha la capacità di spingerci sempre a pensare al peggio. Mi rimangono venticinque minuti, posso ambire addirittura al pranzo al sacco prima della partenza del treno. M’infilo nel primo baretto, scelgo un panino e vado alla cassa. Ci sono due cassiere e un cliente. Vado davanti alla cassa libera ma la cassiera finge di non esistere. Forse è un ectoplasma e solo io la posso vedere, tipo il bambino de Il sesto senso. O forse sono io il fantasma e sono morto. Devo appuntarmi di smettere di guardare Il sesto senso.

Nel frattempo, un tizio sui sessant’anni pronto a saltarmi davanti alla prima distrazione, ha creato in autonomia una terza fila di fianco a me, con lo spirito d’intraprendenza che solo gli abitanti di Roma che provano a fare i furbi sanno avere. Appena mi allontano dalla cassiera in stand by e mi accodo dietro al cliente dell’altra cassa, il furbetto malandrino si piazza davanti alla cassa fantasma e come niente fosse ordina un caffè all’unica cassiera con le batterie cariche, prima ancora che il cliente davanti a noi abbia liberato il posto.

«Scusi, c’ero prima io», faccio.
«Non l’avevo vista» risponde lo stronzetto.
«Certo che mi ha visto. Si è intrufolato appena mi sono spostato».
«Non c’ho fatto caso».
«No, ha fatto il furbo».
«Un Euro e venti», fa la cassiera, come un automa.
«Scusami», le dico, «ti ho appena detto che c’ero prima io».
«Ho già fatto lo scontrino e non si può annullare». Che è un modo per dire che non ha voglia di annullarlo o non è capace. È affascinante come questa città trova sempre un modo diverso per premiare i prepotenti.

Io lo prendo come un segno del destino e me ne vado. C’è chi è allergico ai crostacei, io sono intollerante ai maleducati. Mi aggiro alla ricerca di cibo educato e vengo attirato dai panini al prosciutto di un bar vegano. Il proprietario dev’essere un burlone, quindi provo. Mentre sto per mettere piede nel locale, un tizio mi supera di corsa e si precipita al banco trafelato.
«Un pacchetto di sigarette», chiede.
«La tabaccheria è più avanti», risponde lei.
Il tale prosegue di corsa, esce dalla parte opposta del locale e svanisce nel nulla.
La commessa scuote il capo e mi chiede cosa voglio.
Indico col dito: «Un panino al prosciutto».
«Te lo scaldo?» chiede sorridente.
«Sì, grazie».
Si arrampica sulla scansia per raggiunge la piastra.
«Me l’hanno messa qua. Ogni volta me devo arrampicà». Infila dentro il panino. «Dimmi tu quanto te lo devo scaldare, voglio che lo mangi come piace a te. Io ti consiglio di non scaldarlo troppo ma te lo faccio come preferisci tu».
Roma è questa: supreme teste di cazzo e persone incredibilmente gentili che convivono l’una a fianco all’altra, in un incomprensibile e delicato equilibrio.
«Un paio di minuti va bene» rispondo.
Due minuti dopo sistema delicatamente il panino in una borsina di cartone e lo copre di tovagliolini come fosse un neonato che non deve prendere freddo.

Attendo che sul tabellone compaia il binario del mio treno, quindi m’incammino verso il Frecciarossa che mi porterà a Bologna. Tiro fuori il cellulare e controllo il mio posto: carrozza 10. In pratica, una gita fuori porta. M’incammino assieme agli altri viaggiatori, sembra una scampagnata di gruppo a Lourdes. Il treno è talmente lungo che salgo più o meno all’altezza di Viterbo. Il mio vagone è semideserto, divoro il mio panino come uno che non mangia dalla sera prima, probabilmente perché è dalla sera prima che non mangio. A volte mi meraviglio quando le cose hanno perfettamente senso.

Tiro fuori dalla custodia i miei occhiali nuovi da lettura per la prova su strada con il romanzo che mi sono portato dietro. Le lenti sono piene di ditate, riesco miracolosamente a pulirli senza graffiarli con il malefico QR code e m’incuriosisco: chissà dove mi vogliono portare i draghi del marketing. Quando inquadro il quadrato bianconero con la fotocamera del telefono, ho l’ennesima conferma che il mondo è un posto meraviglioso: il link conduce alla pagina di manutenzione e pulizia delle lenti, una serie infinita d’istruzioni dettagliate su come detergerle e conservarle senza graffiarle. Le cose che danno un senso alla vita bisogna andare a cercarle, non sono mai sotto sotto i nostri occhi. Stavolta erano nascoste dentro un QR code.

Poco dopo il treno parte in perfetto orario. Mi abbandono contro lo schienale e mi rilasso soddisfatto: anche oggi sono sopravvissuto alle insidie capitali della nostra sgangherata capitale.

Il problema dei 3 compleanni

Oggi è il mio compleanno, e come tradizione ormai consolidata, è venuto il momento di comprare il libro che inizio il giorno del mio compleanno. Sono infatti anni che ho deciso di leggere un nuovo libro ogni 3 aprile per sopperire alla mancanza di celebrazioni, visto che è dal giorno del mio trentesimo compleanno che non festeggio più il Natale personale. Non perché non amo i festeggiamenti, non li amavo neppure quando lo festeggiavo, semplicemente perché a 31 anni mi sono reso conto che non c’era più niente da festeggiare.

E allora è partita questa splendida tradizione che ha una sola regola: il libro deve essere acquistato il giorno del mio compleanno e diventare così il mio regalo di compleanno. Tutto molto bello, c’è solo un problema: sono un disastro a fare i regali di compleanno. Sono bravissimo a fare i regali decontestualizzati, che so, vedo una cosa in un negozio che potrebbe piacere alla persona X e allora la compro e ci azzecco sempre. Però sono un disastro sotto stress, quando si avvicina la deadline e devo assolutamente comprare un regalo, però non so cosa, giro i negozi e niente, allora vado online, però online non va bene perché se poi non arriva in tempo non ho il regalo, allora torno nei negozi e all’ultimo minuto compro qualcosa di puntualmente sbagliato.

Insomma, tutto questo per dire che gli ultimi due compleanni ho comprato due libri che non mi sono piaciuti al punto tale che non li ho mai finiti, e non posso permettermi di commettere lo stesso errore per il terzo anno di fila. Ne va della mia autostima, se non riesco neppure a fare un regalo che piace a me stesso, sono proprio senza speranza. Poi per fortuna l’altro giorno, appena ho finito di guardare “Il problema dei 3 corpi”, ho capito come risolvere il problema: comprare “Il problema dei 3 corpi”. La serie TV mi è piaciuta, so già in linea di massima cosa succede, ci sono buone probabilità che il libro mi piacerà, che azzeccherò il regalo e che farò un gran figurone con me stesso.

E in più risolverò l’annoso problema di dover aspettare minimo un anno per sapere come va a finire la storia, che poi non finirà e dovrò aspettare un altro anno e via così. Quanto mi fa incazzare questa cosa delle serie TV, l’attesa è una cosa a cui non siamo più abituati. Vogliamo tutto e subito, vogliamo essere certi che le cose ci piacciano, pretendiamo certezze e non ci facciamo più sorprendere dalle cose perché l’ignoto ci spaventa troppo. La nostra vita è il sequel di un prequel che spera prima o poi di diventare un reboot ma finisce per essere un pessimo remake.

Allora non ci resta che aggrapparci alle poche certezze che abbiamo, il compleanno che ritorna puntuale a ricordarci che è passato un altro anno, che per fortuna siamo ancora vivi e ancora un po’ vegeti, che siamo troppo conservatori per leggere un libro non di carta, ma sufficientemente progressisti da sperare che un libro di fantascienza scritto da un cinese che ha avuto l’ispirazione guardando allo stadio la partita di calcio tra Cina e Sampdoria possa realmente piacerci.

Questo sarebbe un bel finale, però sento il bisogno di aggiungere che non sto scherzando, infatti stamattina, il primo articolo che ho letto appena ho preso il cellulare in mano per cercare il nome dell’autore del libro, tale Cixin Liu (non so qual’è il nome e quale il cognome), è un articolo di Repubblica in cui lo scrittore racconta davvero questa cosa che sembra uscita da un trailer di Maccio Capatonda, cioè che nel 1994 era in piccionaia allo stadio a vedere la Sampdoria di Gullit (sembra che Gullit abbia davvero giocato nella Samp, non è la trama di un libro distopico) e vedendo da così lontano i 22 giocatori ha pensato alle stelle, alla distanza tra i pianeti, ecc… E allora ho pensato che con un ufficio stampa che fa un tale sforzo per fargli sparare cazzate perfettamente personalizzate per ogni singolo mercato nazionale, valesse decisamente la pena di contribuire all’arricchimento di un povero scrittore asiatico che trent’anni fa non poteva permettersi di vedere i calciatori in scala 1:1.

Detta così, a pensarci bene, non c’è verso che mi piaccia ‘sto libro. Porca troia, ho scazzato il regalo anche quest’anno!

Non ci vogliono ai Mondiali? Usciamo dal pianeta!

(*Attenzione, il presente articolo contiene battute sulla Macedonia. Allergeni: fragole, kiwi, banane. Alcune battute potrebbero essere surgelate).

C’è solo una cosa peggiore di venire eliminati dai prossimi mondiali in Qatar dalla Macedonia: venire eliminati dalla Macedonia del nord. In pratica, è bastata una mezza porzione di Macedonia per farci fuori, come una nocciolina per un allergico alle arachidi. L’ironia della cosa è che la Macedonia del sud non esiste neppure. A parte in Grecia, dove pensano di avere il monopolio delle macedonie e hanno fatto cambiare nome al povero stato macedone, manco fosse una denominazione vitivinicola francese.

Però bisogna cercare di essere ottimisti, dobbiamo vedere il bicchiere mezzo pieno, fissarlo intensamente per i prossimi 48 mesi, e sperare di rimanere ipnotizzati, perché le speranze che al suo interno ci sia del buon vino sono ridotte al lanternino (più facile ci sia dell’amaro, probabilmente Montenegro).

È per questo che, visto che la nostra cultura ci obbliga moralmente a dare la colpa a qualcuno, ho deciso di farmi carico della grande responsabilità di elencare i poteri forti che ci hanno impedito di prendere parte al canonico rituale quadriennale prenatalizio chiamato mondiali di calcio, così sappiamo con chi dobbiamo prendercela:

La NATO

Dobbiamo farcene una ragione, questa volta l’occidente ci ha abbandonato e ci ha cancellato dai mondiali di calcio come ha fatto con la Russia. È giunto il momento di inaugurare una nuova sfera d’influenza geopolitica, magari con open bar, chef stellato, discoteca di tendenza e Flavio Briatore premier.

I tempi di recupero moderni e l’Euro

Bei tempi quando le partite duravano 90 minuti, non solo perché eravamo giovani. Erano altri tempi, c’erano dei valori, esistevano certezze. Le partite duravano un’ora e mezza in punto. Il calcio non è il tennis o la pallavolo, quando andavi allo stadio mettevi nel parchimetro le monetine per coprire esattamente un’ora e mezza più un quarto d’ora d’intervallo.
Poi è arrivato l’Euro e ci hanno dovuto aggiungere i minuti di recupero per arrivare a due ore tonde di parchimetro. Se ci fosse ancora la Lira, il gol della Macedonia del nord sarebbe arrivato fuori tempo massimo. Non è questione di antieuropeismo, non sto proponendo di uscire dall’Europa, anche perché gli Europei di calcio li abbiamo vinti. È dal mondo che dovremmo uscire. Non ci vogliono ai Mondiali? Usciamo dal pianeta e portiamo via il pallone!

Mancini

La colpa è sempre dell’allenatore, ma questa volta più di tutte. Tralasciamo la catastrofica statistica che l’ha portato a presentarsi alla sida decisiva dopo aver perso ben tre partite in quattro anni. Non una, non due, ben tre partite. Per fare un esempio, è come se uno ci rapinasse, uccidesse nostra moglie, ma noi gli dessimo un’altra possibilità, noncuranti del proverbio “non c’è due senza tre”. Assurdo.
Il fatto è che siamo stanchi del solito nepotismo che l’ha portato a schierare titolare Gianluca Mancini. D’accordo, non è figlio suo, ma non essendo nato in provetta di qualcuno è figlio, quindi nepotismo resta. È ora di dire basta alla deplorevole pratica di esonerare gli allenatori appena non ottengono i risultati sperati. Andrebbero esonerati prima! Idealmente nelle prime 2-3 settimane, magari durante la conferenza stampa che precede la prima partita, così le falle verrebbero tamponate subito. Ma siamo in Italia e bisogna sempre aspettare l’ultimo momento per prendere dei provvedimenti. Uno parcheggia fuori dalle strisce e prende sei anni di galera, i politici stuprano gli immigrati e uccidono i cuccioli di koala e prendono 15 giorni con la condizionale.

I nomi buffi

Ammettiamolo, con dei cognomi come Barella, Bastoni, Immobile, Acerbi e Donnarumma dove crediamo di andare? Chi può prendere sul serio una squadra che sembra uscita da Topolinia assieme al commissario Basettoni e Qui, Quo, Qua? Ci manca solo di naturalizzare Boyata dal Belgio, e far partire (un) Embolo titolare prelevandolo direttamente dalla nazionale Svizzera, poi siamo a posto.
A proposito di nomi buffi, visto che in Italia siamo tutti CT della nazionale, mi permetto di suggerire la squadra dei miei sogni: Donnarumma, Bastoni, Ranocchia, Destro (terzino sinistro), Barella, Acerbi, Mandragora, Fagioli, Pastore, Sansone, Lasagna, Immobile.

Palermo

Avete presente le tre piaghe di Palermo di Johnny stecchino? Ecco sono appena diventate quattro. Qualcuno ha deciso che l’Etna, la siccità e il traffico non erano abbastanza, occorreva aggiungerci la più grande disfatta calcistica della nostra storia. Tanto al sud peggio di così che vuoi che succeda?
Anche perché tradizionalmente portare la nazionale di calcio in meridione fa molto bene all’unità del paese, come confermano i mondiali d’Italia 90, quando portammo Maradona a giocare nello stadio che si chiama come lui.

Il primo contatto

Mercoledì 28 febbraio ore 11,21.
Ufficio postale di Vergato (Bologna, Italia, Europa, Pianeta Terra, Sistema Solare, Via Lattea, Universo).

Come un alieno verde, entro nell’ufficio semideserto.
Forme di vita: cinque. Con i sensori a corto raggio, scansiono gli sportelli e individuo quello che fa al caso mio. Prendo il numerino perché so che ci tengono e mi presento davanti allo sportello che già recava con inquietante preveggenza in mio numero: 112. Attivo il traduttore universale che mi consente di parlare nella lingua autoctona ed entro in contatto con l’essere vivente che ho davanti.

«Dovrei spedire queste sei buste con posta prioritaria».
«Sono tutte dello stesso peso?».
«Sì».
Pigramente, solleva la prima busta e la ripone sulla bilancia. Sforzo e lentezza necessari all’operazione, mi fanno dedurre che la forza di gravità è molto maggiore rispetto al mio pianeta d’origine.
«Ci vogliono ventiquattr’ore vero?».
«No. La posta prioritaria è come la posta di una volta. Si chiama così ma ci vogliono tre-quattro giorni almeno».
Sono allarmato, dall’arrivo rapido delle missive dipende la salvezza dell’intero Universo e quindi anche quella dell’impiegata postale, che pare non preoccuparsene più di tanto.

  • Lettere per la salvezza dell'Universo
  • Lettere per la salvezza dell'Universo
  • Lettere per la salvezza dell'Universo


«Ci vuole così tanto causa maltempo, oppure la posta non parte più per Bologna tutti i giorni?».
«No, no. Parte tra qualche ora. È così. È sempre stato così».
«Scusi, ma quando vado a Roma o a Bologna mi dicono che ci vogliono ventiquattr’ore ed effettivamente arrivano in quel tempo».
«Non è possibile».
Controllo il traduttore universale in cerca di guasti: niente. Provo ad adattarmi alla cultura locale e cambio approccio.
«Esistono anche opzioni più rapide per l’invio?».
«Certo, c’è la raccomandata con ricevuta di ritorno».
«Niente di più pratico, senza necessità di compilare scartoffie aggiuntive?».
«C’è la Posta Prioritaria con tracciamento. Quella sì che ci mette ventiquattr’ore».
«Perfetto. Quanto costa in più?».
«Controllo». Quindici secondi dopo: «Due Euro e ottantacinque contro… due Euro e ottanta».
«L’opzione rapida mi costa solo cinque centesimi in più?».
«No. Quella rapida costa cinque centesimi in meno».
Devo cambiare quel catorcio del traduttore universale che non funziona.
«Non ho capito. Ha detto che l’opzione rapida costa cinque centesimi in meno?».
«Esatto».
Capisco che le leggi spazio temporali che governano questo mondo lontano sono molto diverse da quelle a cui sono abituato, penso ad Einstein e Hawking, e mi chiedo se abbiamo mai postulato qualcosa del genere.
«Allora le spedisco rapide».
«Però le prime due le paga cinque centesimi in più perché ho già attaccato l’etichetta».
«Va bene».
La strana creatura che ho di fronte, espleta le sue pratiche con zelante pigrizia, quindi sentenzia: «Sedici Euro e Novanta».

Decido di pagare ed esco dall’ufficio postale affranto. Temo di aver fatto un errore terribile: questo mondo non merita di essere salvato.

La fine del mondo è solo l’inizio

Interrompiamo le trasmissioni per trasmettere un importante annuncio: il mondo sta per finire a causa di un conflitto nucleare (o a causa del surriscaldamento globale, decidete voi). Innanzitutto, ci tengo a precisare che a differenza di tutte le altre crisi belliche tra Russia e Stati Uniti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, questa volta la minaccia atomica è reale perché sta accadendo ora e non nel passato.

Infatti, il Doomsday Clock degli scienziati Atomici dell’Università di Chicago non è mai stato così vicino all’ora zero come in questo momento: mancano in effetti solo 100 secondi alla fine del mondo (esattamente come nel 2021 e nel 2020, quindi non è cambiato niente, ma solo perché gli scienziati nucleari leggono esclusivamente le pagine sportive dei giornali).

Visto che, come sanno tutti i teenager maschi che provano a fare sesso senza venire istantaneamente, 100 secondi possono essere un tempo infinitamente lungo, in questa sede mi voglio concentrare sugli aspetti positivi del tanto atteso Giorno del Giudizio o dell’Apocalisse che dir si voglia.

Moriranno anche tutti i nostri nemici.

Avete presente il tizio che vi ha rubato la fidanzatina in terza elementare, il vostro capoufficio, il tanto odiato leader di quel partito politico? Ecco, moriranno anche loro abbrustoliti dalle radiazioni atomiche o dalle temperature tipo forno microonde che si creeranno in Italia a causa della riapertura delle centrali a carbone. Mai come in questo caso si può dire che la vendetta è un piatto che va servito caldo.

Scopriremo finalmente non solo se Dio esiste ma, soprattutto, quale Dio esiste.

Ogni religione ha le sue credenze che spiegano nei minimi dettagli cosa accadrà alla fine del mondo, quali saranno i premi in denaro per i fortunati possessori della religione vincitrice e quali le punizioni per aver scelto il culto sbagliato. È finalmente arrivato il momento di vedere chi aveva ragione. Sarà un po’ come guardare il festival di Sanremo in TV: dopo una vita intera di noia mortale, avremo il brivido adrenalinico di scoprire se hanno vinto i due miliardi di cristiani, il miliardo e mezzo di musulmani, il miliardo di induisti, i 375 milioni di buddisti o i quattro gatti di Scientology. Poi ci renderemo conto che alla fine la vittoria non cambia niente né a noi né a loro, visto che tanto saremo tutti morti lo stesso. Esattamente come alla fine di Sanremo.

La fine del mondo non sarà la fine del mondo

Il mondo (si veda la voce Terra su Wikipedia) continuerà a esistere esattamente come prima, a scomparire saranno semplicemente la maggior parte degli essere viventi, che creeranno altri esseri viventi, da cui si creeranno gli esseri viventi che faranno finire nuovamente il mondo, che non finirà davvero, perché il nostro pianeta continuerà a esistere. E via dicendo.

Finirà la specie umana

Parliamoci chiaro: la razza umana di cose fatte bene non ne ha combinate granché. Lungi dall’essere razzista, se tra tutte le razze esistenti è stata proprio quella che ha fatto finire il mondo (che comunque, per chi non l’avesse capito, continuerà ad esistere lo stesso), ci sono buone probabilità che per il bene di tutte le altre specie viventi dell’Universo, la fine del nostro mondo sia un lieto fine.

Non dovremo finire di pagare il mutuo

Ma neppure preparare l’esame di analisi I, fare l’esame di maturità, e neppure gli esami del sangue, perché tanto la prognosi è già stata scritta per noi. Non dovremo passare un minuto di più in fabbrica, in ufficio e neppure vedere la nostra squadra del cuore perdere puntualmente contro la Juventus (e i tifosi della Juventus non dovranno più vedere perdere regolarmente la finale di Champions League).

Che la festa cominci!

Per i 100 secondi che ci restano da vivere ci potremo finalmente dare alla pazza gioia. Ma, mi raccomando, non al sesso sfrenato, perché, a meno di non avere ancora 16 anni, finire con un coitus interruptus non è proprio il miglior modo per andarsene.

P.S. si ringrazia per l’immagine un film di Stanley Kubrick con un titolo che sembra un film di Lina Wertmuller e che finisce con un lieto fine atomico.

Strategie per provare a sopravvivere alla demenza senile di Putin

Ci tengo a rassicurare i lettori sul fatto che Vita sprecata non risentirà in alcun modo della crisi energetica legata all’attuale conflitto bellico in Ucraina perché i nostri server sono alimentati a carbone. In ogni caso, ho pensato fosse il caso di dispensare alcuni consigli pratici per risparmiare energia elettrica di questi tempi bui (letteralmente, a meno di non avere candele e fiammiferi a disposizione).

1) Andate a consumare la luce al ristorante.

È vero, mangiare fuori costa, ma in confronto a mezz’ora di luce accesa nella cucina di casa, persino un pasto completo all’Osteria Francescana di Bottura diventa praticamente regalato.

2) Andate a consumare la luce al cinema.

Le sale cinematografiche funzionano a luci spente, quindi potete tranquillamente andare a sfruttare la corrente elettrica del loro proiettore senza sensi di colpa. Certo, con il prezzo del biglietto per un film vi pagate un mese di abbonamento a miliardi di film in streaming, ma con quello che vi costa l’energia elettrica per alimentare tv o computer, diventerà ben presto molto più conveniente produrvi in casa il blockbuster con il vostro supereroe preferito.

3) Fate lunghe passeggiate serali.

Dopo il tramonto, non c’è modo migliore per risparmiare corrente che andare a sbafo con la luce del sindaco, tanto i lampioni rimangono accesi tutta la notte in ogni caso, quindi sarebbe uno spreco non approfittarne. Sotto al lampione giusto si possono fare tante attività interessanti come giocare a carte, leggere un romanzo o addirittura trovare l’amore (50 bocca e 100 amore per la precisione, ma sempre più economico dei canonici 15 minuti di luce soffusa di abat-jour sul comodino con la fidanzata).

4) Se proprio non avete voglia di uscire, dormite molto.

Una ventina di ore di sonno quotidiane dovrebbero essere sufficienti per arrivare a una bolletta elettrica ragionevole, a patto di utilizzare parsimoniosamente le 4 ore che rimangono.

5) Attenzione a dove ricaricate.

Ricaricate il cellulare in treno, in ufficio, sul pianerottolo di casa, o in qualsiasi altro posto ma mai, ripeto, mai nel vostro appartamento. Se siete troppo abitudinari per smettere di ricaricare in casa, ogni volta che prendete il telefono per navigare su Internet fatevi questa domanda: andrei mai su un social o su Google se fossero a pagamento? Ecco, da oggi lo sono diventati.

6) Cagate al buio.

Non c’è bisogno di sprecare luce preziosa, tanto dentro di voi non uscirà mai nulla che valga la pena di essere visto. Se siete una donna, potete tranquillamente anche pisciare al buio. Però, mi raccomando, dovete essere una donna con tutti gli accessori al suo posto, se vi riconoscete semplicemente come tale, meglio sedervi. Nulla contro i transgender in fase di transizione ma, a meno che la transizione in questione non sia per diventare un Predator, non c’è verso di prendere la mira al buio.

7) Attaccatevi alla wi-fi del vicino.

Ovvio, c’è il problema della password, ma quella sta sempre scritta sul retro del modem, e se non riuscite a trovare una scusa per fare un salto in casa del vicino e dare una sbirciatina all’etichetta del suo router, meglio darci un taglio e farla finita subito, perché non c’è verso che riusciate a sopravvivere alle prossime sciagure che il 2022 ha in serbo per noi.

Il figlio di Niki Lauda

Un atipico lunedì di dicembre, freddo e soleggiato. Sono in via Cartoleria a Bologna, sto salendo sull’autobus. Ogni volta che prendo la navetta C ritorno istantaneamente ai tempi dell’università. Mentre salgo le scalette della porta sul retro, mi ritornano alla mente tutte le aspirazioni che non si sono realizzate, i desideri infranti. Ripenso al mio sogno di diventare neurochirurgo di fama mondiale e mi viene il dubbio che forse non avrei dovuto fare il DAMS.

Timbro il city pass in una frazione di secondo perché ormai a Bologna pur di riuscire a farti la multa ti geolocalizzano direttamente col satellite della NASA. Il bus parte. Non ho il tempo di sedermi, che il mio trolley schizza in avanti e va a schiantarsi contro lo schienale di un seggiolino. Afferro il corrimano ma rimango in piedi per miracolo e solo in quel momento capisco: l’autista è il figlio di Niki Lauda.

Viennese di nascita ma italiano d’adozione sportiva, i più giovani probabilmente non sanno che Niki Lauda è stato tre volte campione del mondo di Formula 1, di cui due con la Ferrari. Quello che tutti ignorano, invece, è che ha un figlio autista d’autobus a Bologna.

Qui occorre aprire una parentesi per spiegare che nel lontano 1999, l’amministrazione comunale decise di completare l’ammodernamento della città iniziato nel tardo medioevo, dotando la zona universitaria di un piccolo autobus agile e compatto in grado di muoversi nelle strette vie del centro storico, consentendo per la prima volta ai poveri studenti pendolari che non potevano permettersi il lusso di venire sfruttati dai malefici affittuari dei terrificanti microappartamenti del centro, d’avvalersi di un mezzo di trasporto pubblico per raggiungere le proprie umili dimore fuori dal capoluogo. Ma districarsi nel traffico delle strette stradine universitarie era un’impresa talmente ardua da non poter essere affidata a un autista qualsiasi, fu per questo che in un’assemblea straordinaria notturna di un giorno festivo, il consiglio comunale decise di assumere il figlio di Niki Lauda.

Mi guardo attorno e m’accorgo che l’autobus è deserto. La forza di gravità dell’improvvisa accelerazione del mezzo mi scaraventa all’indietro. Riesco miracolosamente a rimanere in equilibrio su una gamba e afferrare il braccio estensibile del trolley, che dopo essere rimbalzato contro il sedile davanti mi sta per travolgere. Se riesco a lanciarmi nel primo seggiolino nei paraggi è per via di un’unica e semplice cosa. Esperienza.

La prima chicane è affrontata abilmente, l’ingresso al tornante di via Rialto sembra l’approccio al tornante del GP di Monaco di Lewis Hamilton, però una leggera sbavatura nella parabolica che immette su via Santo Stefano causa un sensibile ritardo. Bisogna recuperare. L’accelerazione nel rettilineo di Santo Stefano che m’appiccica allo schienale ricorda quella della partenza di uno Space Shuttle. Siamo tornati nei tempi. Al semaforo di Piazza Aldrovandi, però, il tragico imprevisto.

Un furgoncino parcheggiato a cazzo ci costringe a una repentina virata, il SUV Volkswagen incazzoso che si mette a suonare e ci taglia la strada ci costringe a fermarci. È il dramma. Il semaforo diventa rosso, il figlio di Niki Lauda abbassa il finestrino e riempie d’improperi lo sprovveduto guidatore del lunedì che prova a rilanciare con un paio di epiteti coloriti; il figlio di Niki chiosa con un: con un: «C’ho il cazzo di furgone in mezzo, dove minchia vuoi che vada. Stronzo!», Io lancio un’occhiata al SUV alla mia sinistra, poi una al furgoncino alla mia destra. Ha ragione il figlio di Niki, ma questo l’uomo del SUV non lo saprà mai perché impallato dal nostro autobus: dal suo punto di vista siamo noi che gli abbiamo tagliato la strada. Lo immagino che entra in casa e racconta alla moglie la sua disavventura con la navetta C convinto di essere nel giusto, e solo in quel momento capisco perché nelle discussioni stradali hanno sempre tutti ragione.

Quando il semaforo diventa finalmente verde, un’auto ferma in mezzo alla strada blocca il nostro passaggio a causa di una vettura abbandonata a vanvera di fianco ai paletti dissuasori mobili di piazza Galvani. Il figlio di Niki Lauda si attacca al clacson e a furia di “cavati dal cazzo” obbliga l’omino a fare marcia indietro per farci passare. Nonostante le origini austriache, dalle parolacce non traspare alcun accento teutonico.

Arriviamo all’intertempo della fermata Galvani con 1 minuto di ritardo. L’impresa è improba. Sale un’incauta anziana, che viene subito sbalzata in avanti. Ancora non sa che al volante c’è il figlio di Niki Lauda. Penso di avvisarla di sedersi al più presto, ma sono troppo impegnato a rimanere agganciato al sedile. Ognuno per sé, ormai siamo alla legge della giungla. In via Rizzoli schiviamo per miracolo due inconsapevoli turiste intente a fotografare la torre degli Asinelli un millimetro fuori dalle strisce pedonali. Il figlio di Niki Lauda borbotta tra sé offese variegate e frasi incomprensibili alle turiste di merda come una sorta di training autogeno per darsi la carica.

All’ingresso della donna nera con bambino nero dentro a un passeggino nero abbiamo recuperato almeno 25 secondi, ma ancora non basta. La donna posteggia il passeggino e deposita il bimbo sul sedile singolo davanti a me. Non sa che al volante c’è il figlio di Niki Lauda. Penso di avvisarla del rischio che sta correndo la sua prole ma Niki Jr. parte in quarta e il pargolino viene catapultato in avanti contro al corrimano. Ormai è spacciato. La mamma lo afferra prontamente prima che sia troppo tardi e lo deposita nuovamente sul sedile. La frenata del semaforo di via Indipendenza sbalza nuovamente in avanti il bambino, che questa volta va a sbattere contro al corrimano. La mamma lo deposita nuovamente sul sedile. La partenza da Space Shuttle ha un’accelerazione pari a 3G, ma non quello telefonico. Il bambino viene compresso contro lo schienale.

Ha il terrore negli occhi.

Si alza in piedi in uno slancio di libero arbitrio: se proprio deve morire su questo autobus, vuole farlo alle sue condizioni, senza attendere di venire catapultato in avanti all’improvviso. Pianta i piedi per terra e si ancora al corrimano. La madre non capisce e lo rimette sul sedile. Il bimbo scende di nuovo, lottando contro la forza di gravità, ma la madre lo depone nuovamente in quella che probabilmente sarà la sua bara. Il bimbo capisce di essere spacciato, lo sguardo di terrore nei suoi occhi mi perseguiterà per tutta la vita.

Siamo ormai alla fine di via Indipendenza, il bambino è miracolosamente sopravvissuto e abbiamo recuperato come minimo un altro mezzo minuto. Inchiodiamo davanti alla fermata della Stazione Centrale in perfetto orario. Un’impresa che solo il figlio di Niki Lauda poteva compiere. Quando mi alzo in piedi mi rendo conto che in oltre vent’anni non l’ho mai visto in volto e titubante lancio un’occhiata verso di lui. Un brivido mi percorre il corpo, è un momento storico, sto per vedere finalmente il viso del figlio di Niki Lauda. Riflesso nello specchietto retrovisore vedo i suoi capelli brizzolati e un paio di occhi neri sopra a una mascherina chirurgica che cela il suo volto come la maschera di un supereroe, e rammento che a causa del Covid non c’è dato di vedere in faccia il prossimo.

Scendo e penso che è meglio che la sua vera identità rimanga per sempre un mistero. Un attimo prima che le porte si chiudano dietro di me, ringrazio mentalmente il figlio di Niki Lauda per avermi fatto arrivare in tempo, ho seriamente rischiato di arrivare puntuale, ora sono 34 minuti in ampio anticipo. M’avvio verso il Frecciarossa al binario 19 e non ho la più pallida idea di come ammazzare il tempo. Quasi quasi mi metto a scrivere per i posteri l’ultima impresa del figlio di Niki Lauda…

Alla ricerca del calzino perduto.

Tanto tempo fa, durante la mia fase del positivismo logico, ideai una soluzione contro i calzini spaiati che all’epoca mi sembrò infallibile: comprarli tutti neri. Partendo dal postulato scientifico che mettendo in lavatrice un numero pari di calzini, ne esce sempre inevitabilmente un numero dispari, l’idea era quella di risolvere il problema accoppiando il calzino in eccedenza con la rimanenza della lavatrice precedente.

Certo che la mia teoria mi avrebbe portato come minimo un premio Nobel, ho iniziato a fare incetta di calzini invernali, estivi, lunghi e corti, tutti inevitabilmente neri, senza marchi, scritte, o elementi che li diversificassero tra loro. I miei cassetti della biancheria sono in breve tempo diventati l’espressione più pura del concetto di comunismo marxista.

Fino a quel momento avevo visto i calzini come delle specie di pappagallini inseparabili che una volta separati sarebbero andati incontro a morte certa, e invece di punto in bianco avevo risolto l’annoso problema mondiale degli sprechi del ramo calzettonistico. Ovviamente mi sbagliavo.

Avevo clamorosamente sottovalutato le sottili differenze tra le diverse marche di calzini: tessuto, spessore, lunghezza, bordi, righe, tallone, punta. Le differenze erano colossali, e all’improvviso, due calzini che in un cassetto di calzini multicolori potevano sembrare identici, in un cassetto di calze nere diventavano la quintessenza della diversità. La tragedia era che persino tra la stessa marca e modello, bastava qualche lavaggio in più per rendere due calzini usciti dalla fabbrica all’interno della stessa confezione, completamente difformi per lunghezza, consistenza, morbidezza, elasticità.

Le mie certezze iniziavano lentamente a vacillare: ero partito con l’intenzione di non sprecare energie nell’accoppiamento delle calze, e mi ritrovavo a doverli abbinare attentamente sotto una sorgente luminosa per scorgere le differenze altrimenti visibili solo all’atto pratico del rituale della vestizione, con drammatiche ripercussioni nella scaletta dei tempi d’uscita di casa nel momento in cui mi sarei trovato ad affrontare il trauma di trovarsi improvvisamente con due calzini spaiati. Cosa che accadeva sempre più di frequente e aveva finito per raddoppiare il mio problema di partenza.

Ecco perché, con l’esperienza, da qualche anno a questa parte ho iniziato a comprare calzini completamente diversi tra loro per colori e fantasie in modo che siano facilmente identificabili e accoppiabili. Scacchi, rombi, righe, disegni; gialli, vedi, rossi e blu. Ora i miei cassetti sono l’emblema della diversificazione e sembrano una pubblicità della Benetton di Oliviero Toscani.

E proprio ora che sto vivendo questo nuovo rinascimento spirituale fatto di calzini spaiati gettati nel cestino e facili abbinamenti post lavaggio, mentre riordino le fotografie di backup del mio iPhone, m’imbatto in una foto che cambia tutto. Per la precisione si tratta di uno screen shot, che ritrae un set di calzini stranissimi, coloratissimi e completamente diversi tra loro. Appena la vedo ho l’illuminazione: chi l’ha detto che i calzini devo essere identici? Secoli di pensiero unico dominante ci ha portato ad abbinare i calzini senza che nessuno ci abbia spiegato perché. Il mercato capitalistico, big pharma e i man in black, ci hanno convinti dell’assoluta necessità di abbinare le calze per soggiogarci al volere delle multinazionali del tabacco.

O qualcosa del genere. La teoria non l’ho ancora elaborata a dovere, fatto sta che oggi so che è giunto il momento di ribellarmi all’omologazione delle calze e c’è solo un modo per farlo: comprare quei calzini. Come la mela caduta in testa a Newton, il mio screen shot effettuato presumibilmente per documentare le assurdità che la gente vende online, si è rivelato la svolta della mia teoria scientifica. Ora non mi rimane altro che acquistare i calzini e svoltare la mia vita.

C’è un solo problema. Non conosco la marca e neppure il negozio online che li vende. Era probabilmente una di quelle pubblicità che compaiono su Facebook o su qualche sito random che non ho pensato di memorizzare perché in quel momento l’ultima cosa che mi passava in mente era indossare calzini diversi tra loro. All’epoca, la sola idea di calzare qualcosa non in coppia mi avrebbe fatto implodere il cervello. Ora, invece, non so quanto darei per scoprire dove poter acquistare quei calzini.

Che problema c’è? Direte voi. Compra dei calzini e spaiali.

Ingenui. C’è un motivo se non siete postulatori di teorie calziarie come il sottoscritto. Per essere spaiato, il calzino deve nascere spaiato. Se al mondo esiste il suo gemello, il pensiero di camminare per strada indossando un solo componente della coppia è sufficiente per creare gravi problemi cardiovascolari, roba che un giorno ti svegli morto per un calzino spaiato sei anni prima.

È per questo che l’unica soluzione è scoprire dove si possono acquistare i calzini che vedete nella foto. Chiunque è in grado di fornire indizi utili all’acquisto verrà lautamente ricompensato e riceverà una coppia perfettamente abbinata del mio libro Come abbinare i calzini spaiati in edizione autografata, limitata, intarsiata, cesellata, decorata.

Il Peaky Blinders de’ noantri

Dopo una pizza nella mia pizzeria preferita, vado a mangiarmi un gelato dai miei spacciatori di gelato di fiducia. Mentre cammino su viale di Trastevere, noto che la ragazza che mi precede sul marciapiede di cinque-sei metri, si volta verso di me. Nera, sui trent’anni, con degli assurdi pantaloni a fiori: sicuramente una turista straniera. Alla terza occhiata all’indietro, mi rendo conto che ha paura di me. Sicuramente non teme che io sia uno stupratore perché i pantaloni fiorellosi sono la migliore cintura di castità possibile, quindi deduco che mi ha scambiato per un serial killer. Del resto, come darle torto, con la mia nuova fiammante coppola irlandese nera da Peaky Blinders, giubbotto di pelle, jeans neri, mi faccio paura da solo.

Andrea Bacci
Io mentre faccio impunemente sfoggio della coppola da Peaky Blinders.

Nel frattempo, guadagno terreno su di lei: già è lenta di suo, poi tutto quel guardarsi indietro la rallenta ancora di più. Le sono a due-tre metri quando sotto ai nostri piedi, l’asfalto del marciapiede viene sostituito dalle grate di ferro di areazione dei garage sottostanti. I miei passi veloci fanno toc, toc, toc. Lei si volta e si rivolta. Sono mortificato della cosa, quindi rallento il passo. I miei passi lenti ora fanno toc… toc… toc e sono ancora più inquietanti. Sembrano i passi dell’assassino di un film horror.

In quel momento lei attraversa la strada. Sono sollevato perché mi stava mettendo ansia. Mi convinco che non era realmente terrorizzata, era solo una mia impressione. Non stava scappando da me. Però realizzo che essere un serial killer anche solo per pochi minuti è abbastanza figo e mi dispiace sia già finita. Ma proprio quando sto per accettare la dura realtà della mia ritrovata condizione di uomo qualunque, la vedo camminare in mezzo alla strada in equilibrio sulla strettissima lingua di cemento che separa la corsia delle auto dai binari del tram. È una delle cose più scomode che si possano fare camminando per le strade di Roma, e dire che tra buche, marciapiedi scassati, e auto infilati ovunque, i disagi non mancano. In ogni caso una cosa è certa, non ha attraversato la strada, significa che non deve andare dall’altro lato: sta veramente scappando da me.

Tram Roma
La lingua di cemento che è stata teatro degli equilibrismi della fiorellosa.

È qui che capisco. È razzista. Io sono bianco, lei è nera, è l’atavica paura delle altre etnie. E allora mi offendo e la detesto: “Cazzo vuole questa stronza razzista!”. Inizio a farmi un film mentale e m’immagino che figata sarebbe se sta andando in gelateria anche lei: entra, si mette in fila alla cassa, a quel punto entro io e mi metto dietro di lei. Lei si volta e io «Buuu!» tipo Freddy Kruger.

Non stacco gli occhi dalla tipa fiorellosa, voglio vedere cosa fa. E all’improvviso eccola che attraversa nuovamente la strada per tornare dal mio lato del marciapiede, proprio all’altezza della gelateria all’angolo. Allora inizio a pregare il Dio degli atei: “Per favore Dio, dimostrami una volta in più che non esisti facendola entrare in gelateria”. Sarà che la mia divinità non è stronza e vendicativa come tutte le altre, sarà che noi miscredenti siamo in netta minoranza e la fila per l’esaudimento delle preghiere è sensibilmente più corta, ecco che il mio desiderio si avvera davanti ai miei occhi.

gelateria Roma
Il luogo del delitto, definizione letterale di gelateria all’angolo.

La guardo entrare in gelateria come la materializzazione di una delle più grandi soddisfazioni della mia esistenza. Si mette in fila alla cassa, dove non c’è nessuno, neppure il cassiere. Proprio in quell’istante arrivo davanti alla porta, ma non ho il coraggio delle mie azioni ed evito di entrare subito dopo di lei. Nella mia testa era più divertente, adesso temo che sbrocchi e mi accoltelli. Magari è lei la serial killer. Allora entro dalla porta a fianco, quella che dà direttamente sul banco dei gelati. Il caso vuole che il gelataio sia proprio lì davanti, e non faccio neppure in tempo a entrare che già mi dice: «Ciao. Che posso darti?».

Qui subentra il dilemma morale. Tecnicamente, se ordino, salto davanti alla tipa. Ma se dico che c’era prima lei, indicandola col dito, questa chiama il 112. Anzi, il 911, perché ormai sono convinto che è americana di Los Angeles. Solo lì hanno una tale paura dei pedoni. Una volta una pazza mi urlò «Smettila di seguirmi!» perché le camminai dietro per trenta secondi a cinque metri di distanza su un marciapiedi di Sunset Boulevard. Allora decido di fare finta di niente e ordinare come se niente fosse: «Mi dai una vaschetta da 8 Euro». In quell’istante, la razzista fiorellosa si volta verso di me, mi vede e scappa fuori dalla porta. Giuro. Se la dà a gambe levate. Il gelataio non la vede perché troppo intento a gelatare, non ci sono altri clienti, quindi sono l’unico testimone della fuga che fa molto slasher giovanile.

Peaky Blinders
The original Peaky Blinders.

Ordino i miei tre gusti, i primi due li scelgo io e il terzo sono indeciso come al solito e me lo faccio consigliare da lui, che mi suggerisce di abbinare il cioccolato bianco con la cioccolata fondente, ma non mi rendo conto dell’ironia, la capisco solo ora scrivendola. M’incammino verso casa pregustando il mio gelato e proseguendo il mio film mentale. La fiorellosa è la nuova inquilina dell’appartamento di fianco al mio, che è sempre pieno di turisti americani. Lei è in ascensore al piano terra, le porte si stanno per chiudere, ma io le blocco con la mano, entro e me la ritrovo davanti. Questa volta, però, le sussurro: “Wendy, I’m home”.

Wendy, I'm home
“Wendy, I’m home”.

Poi però arrivo nel mio androne, l’ascensore è vuoto, il pianerottolo pure, entro in casa senza che succeda nient’altro di rilevante. Mi mangio il mio gelato, costatando che l’abbinamento cioccolato bianco e nero fa davvero cagare, e ripenso con nostalgia alla mia breve carriera di serial killer. Bei momenti andati che non torneranno più.

Il panino contaminato

Al banco salumi in un supermercato Coop di uno sperduto paesello dell’appennino tosco-emiliano, ho l’ardire di effettuare un ordine troppo complesso:
«Un panino con prosciutto e squacquerone».
«Non posso mischiare salumi e formaggi».
«In che senso?».
«Te lo posso fare o solo prosciutto o solo squacquerone».
«Perché?».
«È per via della contaminazione».
«Cioè??!».
«Tipo, per esempio, non posso tagliare il formaggio con l’affettatrice altrimenti contamino la lama».
«Sì ma lo squacquerone mica lo devi tagliare: è liquido, basta il cucchiaio».
«Eh, lo so, ma non posso».
«Ho capito. E se prendo una vaschetta a parte di squacquerone?».
«Così posso. Però non te lo posso mettere nel panino. Devi mettercelo te».
«Non capisco il senso».
«È così. Ordini dall’alto».
«Il forno in piazza me lo mette lo squacquerone…».
«Si vede che loro possono contaminare».
«Capisco. Allora vada per il panino col prosciutto non contaminato».