È sabato, sono le 12.30, ricevo una telefonata: sono pronti i miei occhiali nuovi. Li vado a ritirare martedì, penso. Ho il treno per Bologna alle 14.50 e chiunque vive a Roma sa che non è umanamente possibile fare più di una cosa al giorno se ti muovi con i mezzi pubblici. In tanti nel corso nella storia hanno provato l’infilata di due appuntamenti mattutini o un paio di spostamenti pomeridiani, fallendo miseramente. Nel mio caso si tratterebbe di compiere un’impresa storica mai tentata prima: tram fino a piazza Venezia, traversata a piedi in solitaria su via del Corso fino al Ray-Ban store, quindi autobus per la stazione Termini. Per spiegare l’enormità dell’impresa, stiamo parlando di coprire 5 km e 400 metri in 2 ore 20 minuti, roba da Guinness dei primati. Ma le sfide perse in partenza esaltano il mio spirito non competitivo e decido di provarci.
Mi vesto di corsa, riempio il trolley con il mio kit di sopravvivenza bolognese invernale, controllo di avere guanti, sciarpa e berretto. Ricontrollo di avere guanti, sciarpa e berretto ma li nascondo in valigia per non essere deriso dalle baby gang romane che non hanno mai visto la neve in vita loro, e mi fiondo fuori dalla porta.
Il tram 8 arriva in 5 minuti, è l’unico mezzo di trasporto affidabile dell’intera città perché ha la corsia dedicata come nei film di fantascienza. Attivo il biglietto del bus con l’apposita app, visto che le edicole nei paraggi sono sempre senza biglietti perché tanto non li compra nessuno, e sul tram hanno tolto le biglietterie automatiche, ufficialmente perché erano sempre rotte e quindi la gente era autorizzata a non pagare (che è un modo diversamente abile di dire che non le riparavano mai quando si rompevano), e nel giro di 10 minuti scarsi sono già all’Altare della Patria.
Porgo le mie condoglianze al milite ignoto e mi dirigo verso qualcosa di ancora più ignoto: la folla di turisti di via del Corso. Mentre mi faccio largo tra la gente che viaggia a rilento sugli stretti marciapiedi rigorosamente affiancata ad amici, amanti e parenti allo scopo di prendere possesso dell’intera estensione del marciapiede pur di riuscire a intralciare gli altri pedoni, rifletto sull’ironia di chiamare via del Corso un posto in cui le uniche volte che qualcuno ci ha effettivamente corso, è stato tre anni fa durante l’ultima maratona cittadina.
Arrivo dall’ottico esattamente alle 13.30 e inizio la trafila dei test delle mie nuove protesi per gli occhi, facendo notare che vado di fretta perché ho il treno che mi aspetta. Le commesse gentilissime mi servono in coppia per accelerare i tempi: una mi raddrizza le stanghette, l’altra si occupa delle scartoffie, roba tipo mutuo bancario decennale perché stavolta di occhiali ne ho comprati tre. Adesso ho più occhi di un ragno.
Visto che oggi rientro nella categoria di persone senza accento romano munite di trolley, mi sento autorizzato a chiedere consiglio sull’autobus da dirottare per arrivare in tempo in stazione. La loro risposta mi apre un mondo: «Ti conviene prendere la metro».
Strabuzzo gli occhi terrorizzato: la metro a Roma?! «Io sto a Trastevere», spiego, «la metro non è un’opzione per me».
Non so neppure se legalmente posso salirci sopra, non sono cittadino romano, non sono un turista, sono un apolide dei trasporti capitolini. Poi la metro si allaga quando piove, ha le scale mobili rotte, viene sabotata dai turisti islamici, e ci sono più preti e suore lì che in Vaticano. Non è un caso se l’ultima volta che ci sono salito sopra s’è dimesso il Papa teutonico: le azioni hanno conseguenze ma le commesse non paiono preoccuparsene.
«Ci metti 5 minuti», spiega, «sali alla fermata Spagna e in un paio di fermate sei a Termini».
Non sono persuaso: «E in autobus?», chiedo.
«In autobus ci metti di più, e poi non sai se arriva».
Giusto, siamo a Roma, a volte me lo scordo. Gli autobus svaniscono come nel triangolo delle Bermude.
Saldo il conto che costa un occhio della testa e fa immediatamente diventare dispari il computo totale dei miei occhi. Per consolarmi mi vengono rifilate tre custodie nere nuove fiammanti munite di panno per la pulizia delle lenti con tanto di QR code. Gli effetti del long Covid. Adesso che sono di moda li infilano ovunque quei maledetti quadratini bianchi e neri, in questo caso, però, qualche genio del marketing ha pensato di stamparlo bello ruvido e plastificato, per semplificare il riconoscimento da parte delle fotocamere degli smartphone. Se poi graffiano le lenti che sono preposte a pulire, chi se ne frega.
Nessuno può essere così folle da applicare carta vetrata su un panno di pulizia per gli occhiali. Le commesse convengono con me ma non possono dirlo, lo fanno semplicemente capire provando in tre a staccare il presunto adesivo con il QR code, che si rivela parte integrante dell’infernale dispositivo di pulizia. Un complottista direbbe che si tratta di una macchinazione ordita al fine di abbreviare il ciclo di vita delle lenti, ma io sono troppo pigro per cospirare e mi limito ad arrendermi alla molto più semplice e disarmante idiozia umana.
Esco dal negozio esattamente alle 14.02, in perfetto orario. Approfitto del rider in bicicletta munito di un clacson da autotreno che apre in due la calca di pedoni, e m’incuneo nelle strette vie turistiche che conducono all’ingresso della metropolitana. Ho già attivato il biglietto sul mio smartphone, quindi non devo perdere tempo ad acquistarne uno alle macchinette.
Peccato che appena arrivo ai tornelli, il lettore non legge il codice a barre. Allora aumento la luminosità. Niente. La bigliettaia mi suggerisce di zoomare lo schermo, ma ancora niente, non c’è verso. È a quel punto che decide di concedermi l’onore di farmi passare. Il tornello si apre magicamente al mio passaggio, come fossi il Re di Spagna. Sento posarsi su di me gli sguardi d’ammirazione della plebe attorno a me per il nuovo Re di Piazza di Spagna. I benefici del biglietto elettronico.
La metro arriva dopo due minuti. Mi siedo nel primo seggiolino libero e controllo il display luminoso: “prossima fermata Cinecittà”. Mi sento già una stella del cinema, pronto per il capolinea Hollywood. Peccato che la fermata di Cinecittà sia la penultima; mi viene l’atroce dubbio che siano chiuse per guasto le prossime sedici fermate e ho paura di rimanere intrappolato per sempre nei pressi della casa del Grande Fratello.
Le fermate si rivelano funzionanti e riesco a scendere alla stazione Termini: era semplicemente rotto il display luminoso. Chissà perché, Roma ha la capacità di spingerci sempre a pensare al peggio. Mi rimangono venticinque minuti, posso ambire addirittura al pranzo al sacco prima della partenza del treno. M’infilo nel primo baretto, scelgo un panino e vado alla cassa. Ci sono due cassiere e un cliente. Vado davanti alla cassa libera ma la cassiera finge di non esistere. Forse è un ectoplasma e solo io la posso vedere, tipo il bambino de Il sesto senso. O forse sono io il fantasma e sono morto. Devo appuntarmi di smettere di guardare Il sesto senso.
Nel frattempo, un tizio sui sessant’anni pronto a saltarmi davanti alla prima distrazione, ha creato in autonomia una terza fila di fianco a me, con lo spirito d’intraprendenza che solo gli abitanti di Roma che provano a fare i furbi sanno avere. Appena mi allontano dalla cassiera in stand by e mi accodo dietro al cliente dell’altra cassa, il furbetto malandrino si piazza davanti alla cassa fantasma e come niente fosse ordina un caffè all’unica cassiera con le batterie cariche, prima ancora che il cliente davanti a noi abbia liberato il posto.
«Scusi, c’ero prima io», faccio.
«Non l’avevo vista» risponde lo stronzetto.
«Certo che mi ha visto. Si è intrufolato appena mi sono spostato».
«Non c’ho fatto caso».
«No, ha fatto il furbo».
«Un Euro e venti», fa la cassiera, come un automa.
«Scusami», le dico, «ti ho appena detto che c’ero prima io».
«Ho già fatto lo scontrino e non si può annullare». Che è un modo per dire che non ha voglia di annullarlo o non è capace. È affascinante come questa città trova sempre un modo diverso per premiare i prepotenti.
Io lo prendo come un segno del destino e me ne vado. C’è chi è allergico ai crostacei, io sono intollerante ai maleducati. Mi aggiro alla ricerca di cibo educato e vengo attirato dai panini al prosciutto di un bar vegano. Il proprietario dev’essere un burlone, quindi provo. Mentre sto per mettere piede nel locale, un tizio mi supera di corsa e si precipita al banco trafelato.
«Un pacchetto di sigarette», chiede.
«La tabaccheria è più avanti», risponde lei.
Il tale prosegue di corsa, esce dalla parte opposta del locale e svanisce nel nulla.
La commessa scuote il capo e mi chiede cosa voglio.
Indico col dito: «Un panino al prosciutto».
«Te lo scaldo?» chiede sorridente.
«Sì, grazie».
Si arrampica sulla scansia per raggiunge la piastra.
«Me l’hanno messa qua. Ogni volta me devo arrampicà». Infila dentro il panino. «Dimmi tu quanto te lo devo scaldare, voglio che lo mangi come piace a te. Io ti consiglio di non scaldarlo troppo ma te lo faccio come preferisci tu».
Roma è questa: supreme teste di cazzo e persone incredibilmente gentili che convivono l’una a fianco all’altra, in un incomprensibile e delicato equilibrio.
«Un paio di minuti va bene» rispondo.
Due minuti dopo sistema delicatamente il panino in una borsina di cartone e lo copre di tovagliolini come fosse un neonato che non deve prendere freddo.
Attendo che sul tabellone compaia il binario del mio treno, quindi m’incammino verso il Frecciarossa che mi porterà a Bologna. Tiro fuori il cellulare e controllo il mio posto: carrozza 10. In pratica, una gita fuori porta. M’incammino assieme agli altri viaggiatori, sembra una scampagnata di gruppo a Lourdes. Il treno è talmente lungo che salgo più o meno all’altezza di Viterbo. Il mio vagone è semideserto, divoro il mio panino come uno che non mangia dalla sera prima, probabilmente perché è dalla sera prima che non mangio. A volte mi meraviglio quando le cose hanno perfettamente senso.
Tiro fuori dalla custodia i miei occhiali nuovi da lettura per la prova su strada con il romanzo che mi sono portato dietro. Le lenti sono piene di ditate, riesco miracolosamente a pulirli senza graffiarli con il malefico QR code e m’incuriosisco: chissà dove mi vogliono portare i draghi del marketing. Quando inquadro il quadrato bianconero con la fotocamera del telefono, ho l’ennesima conferma che il mondo è un posto meraviglioso: il link conduce alla pagina di manutenzione e pulizia delle lenti, una serie infinita d’istruzioni dettagliate su come detergerle e conservarle senza graffiarle. Le cose che danno un senso alla vita bisogna andare a cercarle, non sono mai sotto sotto i nostri occhi. Stavolta erano nascoste dentro un QR code.
Poco dopo il treno parte in perfetto orario. Mi abbandono contro lo schienale e mi rilasso soddisfatto: anche oggi sono sopravvissuto alle insidie capitali della nostra sgangherata capitale.