Dopo una pizza nella mia pizzeria preferita, vado a mangiarmi un gelato dai miei spacciatori di gelato di fiducia. Mentre cammino su viale di Trastevere, noto che la ragazza che mi precede sul marciapiede di cinque-sei metri, si volta verso di me. Nera, sui trent’anni, con degli assurdi pantaloni a fiori: sicuramente una turista straniera. Alla terza occhiata all’indietro, mi rendo conto che ha paura di me. Sicuramente non teme che io sia uno stupratore perché i pantaloni fiorellosi sono la migliore cintura di castità possibile, quindi deduco che mi ha scambiato per un serial killer. Del resto, come darle torto, con la mia nuova fiammante coppola irlandese nera da Peaky Blinders, giubbotto di pelle, jeans neri, mi faccio paura da solo.
Nel frattempo, guadagno terreno su di lei: già è lenta di suo, poi tutto quel guardarsi indietro la rallenta ancora di più. Le sono a due-tre metri quando sotto ai nostri piedi, l’asfalto del marciapiede viene sostituito dalle grate di ferro di areazione dei garage sottostanti. I miei passi veloci fanno toc, toc, toc. Lei si volta e si rivolta. Sono mortificato della cosa, quindi rallento il passo. I miei passi lenti ora fanno toc… toc… toc e sono ancora più inquietanti. Sembrano i passi dell’assassino di un film horror.
In quel momento lei attraversa la strada. Sono sollevato perché mi stava mettendo ansia. Mi convinco che non era realmente terrorizzata, era solo una mia impressione. Non stava scappando da me. Però realizzo che essere un serial killer anche solo per pochi minuti è abbastanza figo e mi dispiace sia già finita. Ma proprio quando sto per accettare la dura realtà della mia ritrovata condizione di uomo qualunque, la vedo camminare in mezzo alla strada in equilibrio sulla strettissima lingua di cemento che separa la corsia delle auto dai binari del tram. È una delle cose più scomode che si possano fare camminando per le strade di Roma, e dire che tra buche, marciapiedi scassati, e auto infilati ovunque, i disagi non mancano. In ogni caso una cosa è certa, non ha attraversato la strada, significa che non deve andare dall’altro lato: sta veramente scappando da me.
È qui che capisco. È razzista. Io sono bianco, lei è nera, è l’atavica paura delle altre etnie. E allora mi offendo e la detesto: “Cazzo vuole questa stronza razzista!”. Inizio a farmi un film mentale e m’immagino che figata sarebbe se sta andando in gelateria anche lei: entra, si mette in fila alla cassa, a quel punto entro io e mi metto dietro di lei. Lei si volta e io «Buuu!» tipo Freddy Kruger.
Non stacco gli occhi dalla tipa fiorellosa, voglio vedere cosa fa. E all’improvviso eccola che attraversa nuovamente la strada per tornare dal mio lato del marciapiede, proprio all’altezza della gelateria all’angolo. Allora inizio a pregare il Dio degli atei: “Per favore Dio, dimostrami una volta in più che non esisti facendola entrare in gelateria”. Sarà che la mia divinità non è stronza e vendicativa come tutte le altre, sarà che noi miscredenti siamo in netta minoranza e la fila per l’esaudimento delle preghiere è sensibilmente più corta, ecco che il mio desiderio si avvera davanti ai miei occhi.
La guardo entrare in gelateria come la materializzazione di una delle più grandi soddisfazioni della mia esistenza. Si mette in fila alla cassa, dove non c’è nessuno, neppure il cassiere. Proprio in quell’istante arrivo davanti alla porta, ma non ho il coraggio delle mie azioni ed evito di entrare subito dopo di lei. Nella mia testa era più divertente, adesso temo che sbrocchi e mi accoltelli. Magari è lei la serial killer. Allora entro dalla porta a fianco, quella che dà direttamente sul banco dei gelati. Il caso vuole che il gelataio sia proprio lì davanti, e non faccio neppure in tempo a entrare che già mi dice: «Ciao. Che posso darti?».
Qui subentra il dilemma morale. Tecnicamente, se ordino, salto davanti alla tipa. Ma se dico che c’era prima lei, indicandola col dito, questa chiama il 112. Anzi, il 911, perché ormai sono convinto che è americana di Los Angeles. Solo lì hanno una tale paura dei pedoni. Una volta una pazza mi urlò «Smettila di seguirmi!» perché le camminai dietro per trenta secondi a cinque metri di distanza su un marciapiedi di Sunset Boulevard. Allora decido di fare finta di niente e ordinare come se niente fosse: «Mi dai una vaschetta da 8 Euro». In quell’istante, la razzista fiorellosa si volta verso di me, mi vede e scappa fuori dalla porta. Giuro. Se la dà a gambe levate. Il gelataio non la vede perché troppo intento a gelatare, non ci sono altri clienti, quindi sono l’unico testimone della fuga che fa molto slasher giovanile.
Ordino i miei tre gusti, i primi due li scelgo io e il terzo sono indeciso come al solito e me lo faccio consigliare da lui, che mi suggerisce di abbinare il cioccolato bianco con la cioccolata fondente, ma non mi rendo conto dell’ironia, la capisco solo ora scrivendola. M’incammino verso casa pregustando il mio gelato e proseguendo il mio film mentale. La fiorellosa è la nuova inquilina dell’appartamento di fianco al mio, che è sempre pieno di turisti americani. Lei è in ascensore al piano terra, le porte si stanno per chiudere, ma io le blocco con la mano, entro e me la ritrovo davanti. Questa volta, però, le sussurro: “Wendy, I’m home”.
Poi però arrivo nel mio androne, l’ascensore è vuoto, il pianerottolo pure, entro in casa senza che succeda nient’altro di rilevante. Mi mangio il mio gelato, costatando che l’abbinamento cioccolato bianco e nero fa davvero cagare, e ripenso con nostalgia alla mia breve carriera di serial killer. Bei momenti andati che non torneranno più.