È il 20 ottobre 2015. Ultimamente vado all’estero con una certa frequenza, non per necessità o piacere, solo per darmi un atteggiamento. Nonostante lo sforzo di sembrare un frequent flayer, che fa molto più cool del banale pendolare, finisco sempre per cadere nel peggiore dei tranelli da principianti: arrivo al gate troppo presto. Difficile liberarsi del super-io materno e della filosofia del metti-che-succede-qualcosa-meglio-partire-in-anticipo, anche se poi, diciamolo, la vita finisce per rivelarsi sempre più monotona delle aspettative e alla fine non succede mai niente. E allora eccomi qua al gate con un’ora di anticipo.
Ne approfitto per girare tra i negozi, nonostante non abbia voglia di comprare nulla, e in caso di tentazione, il trolley pieno come un uovo è condizione necessaria e sufficiente a farmi desistere. Constatato che non sono da Harrods ma al molto meno trendy e ugualmente trafficato terminal 2 di Fiumicino, e senza neppure accorgermene finisco in fila per un panino in uno degli accattivanti locali pieni di prelibatezze culinarie. Ringraziando l’hamburger di mezzanotte della sera precedente che mi ha impedito di fare colazione, inizio a scegliere il mio pranzo.
L’indecisione è tanta, in finale sono arrivati il panino con pane alle patate ripieno di lonza di maiale, e la pizza bianca alla mortadella. Sono come al solito ancora indeciso quando tocca già a me, allora seguo il mio istinto che mi suggerisce di evitare la mortadella fuori dai confini bolognesi. È nel momento più inaspettato che si materializza l’imprevisto strenuamente profetizzato dalla mamma: hanno solo bottiglie d’acqua da 75 cl. Forse non un dramma insormontabile, ma nel grande disegno complessivo sono i dettagli a fare la differenza, e anche il più trascurabile dei particolari può avere conseguenze catastrofiche.
Non so esattamente da quando o per quale motivo, ma da qualche tempo aeroporti, stazioni ferroviarie e autogrill sono stati invasi da queste bottigliette da tre quarti di litro, troppo grandi per essere piccole, troppo piccole per essere grandi; una deforme via di mezzo troppo tozza per rientrare negli standard socialmente accettati (es. porta bibite dell’auto). Ho sempre detestato queste aberrazioni partorite dalla mente malata di qualche drago del packaging, principalmente per un motivo semantico: se iniziamo a chiamare bottigliette quei contenitori che contengono lo stesso quantitativo di liquido delle bottiglie, dove andremo a finire?
Fino a oggi mi sono sempre adeguato alle circostanze nella passiva accettazione del mio destino, limitandomi alla sterile lamentela a posteriori per l’insopportabile fastidio di non sapere mai dove riporre quella bieca incarnazione d’inutile benessere plastificato. L’inevitabile conseguenza è che ho sempre finito irrimediabilmente per bere l’acqua il più in fretta possibile pur di sbarazzarmi in tutta fretta di quello sgradito compagno di viaggio clandestino. Ovviamente, il risultato è trascorrere il resto del viaggio alla ricerca di un bagno, pentito, ripromettendomi che non comprerò mai più una di quelle bottigliette contraffatte.
Ma questa volta è diverso. Mentre mi chiedo se le ragioni dell’invasione delle maxi bottigliette sono dettate da qualche oscura strategia orwelliana per il controllo della società, sento che non lascerò che vada a finire come al solito. Questa volta m’impunto e, dinnanzi alla mancanza di regolari bottigliette da mezzo litro, me ne vado via con il mio panino senza liquidi per mandare giù il boccone, per lo stupore della cassiera ma con la fierezza di chi si sta coraggiosamente battendo contro i mulini a vento. È così che inizio ad aggirarmi per il terminal in cerca di una bottiglietta degna di quel nome, felice di aver trovato qualcosa da fare per riempire l’attesa.
Come sempre accade in questi casi, però, la nobiltà degli intenti si deve scontrare con la dura realtà. Bar dopo bar, locale dopo locale, la risposta è sempre quella: niente bottiglie da 0,5 litri. Determinato a non accettare la sconfitta, decido di tentare la fortuna nei negozi. Inaspettatamente, l’ultimo negozio di souvenir ha un cesto di bottigliette che mi attende di fianco alla cassa. Il miraggio, però, dura giusto il tempo di appurare che, non essendo in frigo, l’acqua è inevitabilmente calda. E c’è solo una cosa che odio più delle bottigliette fake: bere acqua a temperatura ambiente. A meno che l’ambiente in questione non sua un igloo del Polo Sud. Preso dalla disperazione, chiedo alla cassiera se hanno anche acqua fresca, e lei con encomiabile gentilezza mi dice che il tabaccaio a fianco ha un frigo pieno di bottigliette d’acqua.
Il tabaccaio?! È qui che capisco tutti i miei limiti di frequent flayer improvvisato. Mai avrei pensato di trovare quello che cercavo dal tabaccaio, ma dopotutto, con i fumatori sempre più relegati allo status di parassiti da estirpare, la diversificazione degli affari ha un senso. M’avvio a grandi falcate verso il tabacchino, trovo il mini frigo con le bottigliette d’acqua lì ad aspettarmi, e pago l’Euro e cinquanta meglio speso della mia vita. Mentre mi abbevero trionfante alla fonte della mia vittoriosa battaglia contro l’egemonia del collo di bottiglia della grande distribuzione, un turista inglese si avvicina e chiede alla tabaccaia se vendono francobolli. Lei lo guarda come se le avesse chiesto la Luna, gli spiega che non li vendono, quindi guarda me come per dire: “che domande stupide”. Io scrollo il capo e guardo dall’alto al basso quel viaggiatore occasionale: dilettante, i francobolli dal tabaccaio in aeroporto.
Eternamente grato per la lezione sulla diversificazione delle attività del terzo millennio, mi reco al mio gate. Un rapido sguardo all’orologio mi rassicura sul fatto che mi rimangono solo cinque minuti di noiosa attesa, quando l’indicibile accade. Il gate è stato cambiato. Quello che era C12 è diventato D9, così, senza motivo. Senza preavviso. Guardo nuovamente, mi accerto di non aver sbagliato riga del display, ma altri due passeggeri spaesati quanto me per lo spostamento mi confermano la sconvolgente notizia.
Panico.
Mentre mi confronto con l’inadeguatezza del viaggiatore occasionale nell’affrontare le emergenze, mi dirigo a passo svelto verso il gate giusto. Non corro per non dare nell’occhio, slalomeggio tra le persone trascinandomi dietro il mio trolley come fosse un’estensione del mio braccio. Con naturalezza, seguo le indicazioni e mi auguro che l’area D non sia troppo distante. Quando finalmente la raggiungo, vedo il gate all’orizzonte e calcolo mentalmente la distanza che mi separa dal luogo d’imbarco del mio aereo.
Man mano che mi avvicino, come in preda a una visione mistica, esco dal mio corpo e mi vedo destreggiarmi abilmente tra corridoi, persone, bagagli, con la disinvoltura di chi passa le sue giornate nei terminal aeroportuali. Mi guardo arrivare al gate esattamente nel momento in cui inizia l’imbarco, con il carisma del frequent flayer più scafato. Vorrei che ci fossero tutti i miei amici, parenti, nemici e conoscenti, ad assistere alla mia marcia trionfale verso la corsia d’imbarco prioritario. Estraggo carta d’identità e iPhone con due gesti talmente fluidi da apparire un movimento unico, rapido ed elegante. Mi guardo accedere al tunnel che porta all’aereo con l’autorevolezza dello scafato uomo d’affari. Lo stesso fanno tutti gli altri passeggeri, costretti dalla modestia dei propri biglietti a darmi la precedenza.
Mentre entro nell’aereo semideserto mi volto indietro: dietro di me non c’è nessuno. Ma se mi concentro riesco a vedere il viso tirato dalla fatica della cassiera che mi ha venduto il panino e il frigo dietro di lei pieno di bottigliette troppo grandi. È successo solo pochi minuti fa, ma sembrano anni. Sono ormai diventato un viaggiatore esperto, tra poco gli aeroporti non avranno più segreti per me. Ricordo i tempi in cui ero un novellino, quanto tempo sarà trascorso da allora? Almeno sessanta minuti buoni, forse anche qualcosina di più. Ne è passata d’acqua sotto i ponti. Sorrido orgoglioso per aver trovato una metafora così calzante. Estraggo la mia bottigliata d’acqua, ne bevo un sorso, e mi dirigo verso il mio posto senza neppure preoccuparmi della distanza che mi separa dal bagno. Questa volta ho il giusto quantitativo d’acqua con me, e posso finalmente godermi il viaggio in santa pace. Una volta tanto, ribellarmi è servito a qualcosa.